“Il potere teme la cultura, e soprattutto la musica, perché non la può fermare. Non è un caso che in Iran stiano impiccando i rapper: l’arte fa paura, perché è libera”. Tosca non è soltanto una cantante, un’attrice, una donna poliedrica: dal 2015 è la coordinatrice artistica dell’Officina Pier Paolo Pasolini di Roma, un laboratorio di alta formazione del teatro, della canzone e del multimediale. Sa cosa significa avere a che fare con i ragazzi e rispondere del proprio impegno civile. Infatti non è la prima volta che prende posizione a difesa di un popolo oppresso: l’ha già fatto in passato, schierandosi al fianco di quello tunisino durante la “primavera araba”. La sua tournée, partita nel 2015 e durata tre anni, aveva toccato proprio Tunisi (da quella lunga ed emozionante esperienza è nato il doc “Il suono della voce”): “Ho cercato di incontrare persone che potessero raccontarmi, attraverso la loro arte, com’era cambiato il mondo e come, da un periodo scuro, era nata una rivoluzione”. Da qui un evento importante: una maratona a sostegno della popolazione iraniana sabato prossimo, sul palco del teatro Eduardo De Filippo all’Officina. Quasi 40 artisti (da Tosca stessa a Rocco Papaleo, da Niccolò Fabi a Daniele Silvestri, da Caterina Guzzanti alla street artist Laika. Qui l’elenco completo) si alterneranno per testimoniare, raccontare, denunciare. “Per scuotere, perché è questo che l’arte deve fare. Poi sta a ciascuno decidere se voltarsi dall’altra parte”. Sarà una delle tappe di un percorso – che toccherà Taranto, Milano e Torino, per adesso – nato dopo una telefonata di Marisa Laurito, che a Napoli aveva messo in piedi una sorta di flash mob, con una raccolta firme su Change.org in collaborazione con Amnesty International. E poi dopo essersi esibita sul palco di “Propaganda live” con una versione di Bella ciao in lingua farsi: “Sono stata sommersa di messaggi di ragazzi iraniani che mi ringraziavano, chiedendomi allo stesso tempo di non postare le loro storie. Avevano paura”.
Tosca, a Teheran le donne che si tagliano i capelli, si tolgono il velo, manifestano, così come gli uomini che le sostengono, rischiano la vita. Eppure il titolo della maratona di sabato è “La rivoluzione è un lavoro poetico”, come dal verso di un poeta tunisino, appunto. Cosa c’è di poetico in una rivoluzione?
Il poeta in questione si chiamava Mohammed Sgaier Awlad Ahmad ed è stato uno degli artefici della primavera araba. Purtroppo è morto qualche giorno prima che io arrivassi a Tunisi. Una volta lì, ho incontrato invece un’attivista, una blogger, Lina Ben Mhenny – purtroppo scomparsa anche lei tre anni fa –, che mi ha consegnato una domanda fondamentale.
Quale?
“Come si vive in libertà?”
E lei cos’ha risposto?
“In che senso?”. Mi ha spiazzato. Noi italiani da 75 anni conosciamo la libertà, e ormai la diamo per scontata. Lina mi ha raccontato, poi, il metodo che il regime di Ben Ali utilizzava per controllare i musicisti: formava nel management i ragazzi della polizia politica e li faceva infiltrare nel mondo dello spettacolo. E così capitava che gli artisti si ritrovassero qualche grammo di ‘fumo’ nelle custodie degli strumenti e che per questo venissero arrestati e picchiati. Oppure che fossero riferiti al regime le loro parole, le loro strofe, i loro concerti. Significava non potersi fidare di nessuno. La musica è l’arte che meno di tutte può essere fermata, per questo il potere la teme.
Più in generale, la cultura può diventare uno strumento di trasmissione delle informazioni, di diffusione di teorie antisistema.
Lina Ben Mhenny e suo padre tentavano di consegnare libri in carcere agli oppositori, che avevano a disposizione solo testi che incitavano alla guerra o ad Allah. Ma, per guardare in casa nostra, nella seconda metà dell’Ottocento, l’intellettuale teramana Giannina Milli organizzava serate di poesia per far circolare sentimenti patriottici. Oppure, durante la guerra, capitava che le compagnie teatrali cambiassero le parole dopo aver superato la censura. Mi viene in mente Anna Magnani ne La fioraia del Pincio.
Ha citato tutte donne. Anche il #MeToo è nato dalle donne: peccato che la rivoluzione abbia partorito un topolino.
Noi donne siamo spesso le peggiori nemiche di noi stesse. Prenda il metro di giudizio che abbiamo sulla bellezza: dobbiamo essere eternamente giovani, dimostrare sempre 30 anni, perché è questo che la società ci richiede. Ci adeguiamo, facciamo un passo indietro, dando agli uomini questo potere. Perché il bello non può essere, invece, legato allo studio, all’anima, alla vita stessa, alla cultura?
Forse perché l’Italia non investe molto sulla cultura?
Ed è per questo che siamo messi così. In televisione ci vanno solo i politici, abbiamo più talk show degli altri perché le liti fanno audience. È un clima da tifoseria. Ma se hai bisogno di un supereroe per accenderti, devi sapere anche che lui deciderà per te. In questo caos generale, i giovani non capiscono più nulla, e infatti se ne vanno. Invece per ripartire basterebbe saperli ascoltare. Sa cosa mi sono sentita dire quando ho deciso di organizzare queste iniziative?
Cosa?
“Ma chi te lo fa fare?”. “Tanto che puoi fare tu…”. C’è un qualunquismo dilagante tra gli adulti. Stiamo consegnando ai ragazzi un’eredità agghiacciante. Ma loro sono meglio di noi.