“Il popolo unito non sarà mai sconfitto” cantavano gli indimenticati Inti-Illimani. L’ambizione di creare consenso popolare intorno alla lotta alla crisi climatica spinge il movimento Fridays For Future, a 4 anni dal suo primo grande sciopero globale, a riprendere le strade e le piazze di tutto il mondo il prossimo 3 marzo.
Le fondamenta sono sempre le stesse. “Combattere” la crisi climatica significa tentare di impedire che il mondo per come oggi lo conosciamo diventi, non in un futuro remoto ma già nel corso delle nostre vite, un luogo irriconoscibile. Si tratta, in breve, di far sì che se già oggi sciare diventa difficile (e lo è anche far resistere a certe altitudini la neve artificiale), non si debba esser costretti a raccontare cos’era la neve ai nostri nipoti. E lo scriviamo mentre in Piemonte, in pieno inverno, i Comuni faticano ad avere l’acqua a causa della siccità.
La crisi climatica, infatti, colpisce le persone, le piccole cose della vita e quelle grandi, fino a mettere fine a quella di chi si trova coinvolto in disastri come quello delle Marche, della Marmolada o di Senigallia. È una sfida profondamente umana, ma che alcuni numeri possono aiutarci a contestualizzare. Un esempio: 1,5 °C di aumento della temperatura media globale sono la soglia da non superare già individuata negli Accordi di Parigi del 2015 come prioritaria rispetto a quella dei 2°C. Quel mezzo grado di differenza non è una sovrabbondante sfumatura (come evidenziato da un report speciale dell’IPCC del 2018) ma ciò che fa sì che, per far solo un esempio, possa quasi triplicare la popolazione mondiale esposta a ondate di calore estremo una volta ogni cinque anni. Ma un ultimo dato potrebbe a tratti apparire disperante: secondo vari scenari infatti, stante le attuali politiche globali ci stiamo dirigendo verso un aumento di oltre 3°C.
Bisogna quindi ridurre le emissioni di CO2 ora, bloccando nuove ricerche di combustibili fossili e smettendo di temporeggiare come stiamo, invece, facendo in Italia. Trivellazioni e rigassificatori sono false soluzioni che costano tanto senza renderci indipendenti, mentre è fondamentale puntare sullo sblocco dei progetti rinnovabili per arrivare a 10 GW annui installati anche attraverso lo strumento delle Comunità Energetiche, indispensabili queste ultime per far sì che l’energia rinnovabile sia effettivamente una soluzione politica anche della povertà energetica e della centralizzazione anti-democratica della produzione energetica.
Guardando alle cause della crisi climatica è impossibile ignorare la rilevanza delle disuguaglianze sociali. L’1% più ricco d’Europa è responsabile del 50% delle emissioni europee. Inoltre, come rilevato da un recente studio del World Inequality Lab, un gruppo di ricerca co-diretto dal noto economista Thomas Piketty, le differenze di emissioni tra i ricchi e i poveri all’interno di uno stesso Paese (anche sviluppato) sono maggiori rispetto a quelle fra i paesi del Nord e del Sud globale. Questi elementi aiutano a ricondurre il conflitto nei termini dell’1% della popolazione globale – composto dai ricchi dei Paesi sia sviluppati che in via di sviluppo – schierato contro il restante 99%, che attraverso politiche redistributive potrebbe emettere di più (togliendolo ai ricchi) e quindi vivere meglio pur nel rispetto dei limiti ecosistemici.
Per questo ridurre le disparità e sostenere chi si batte per ambienti di lavoro e una quotidianità che non riservi violenze e oppressione è imprescindibile. Non a caso lo sciopero del 3 marzo cade vicino allo sciopero femminista e transfemminista dell’8 marzo. Questa contiguità rende possibile una convergenza sui temi del transfemminismo e della violenza sulle donne che è già naturale e inevitabile, tanto quanto lo è quella con il movimento dei lavoratori. È per i ricchi e per i privilegiati infatti che è difficile essere ambientalisti; per i poveri e per gli appartenenti a qualunque minoranza discriminata è naturale esserlo ed è solo più irta e ostacolata la strada per praticarlo e lottare, specialmente in una società divisa e frammentata come è quella neoliberale.
Ulteriore piano su cui intervenire per ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali (come quelle tra Nord e Sud Italia e fra città e aree interne) è quello di colmare la carenza di servizi che affligge e rende invivibile gran parte del territorio del nostro Paese. Si agirebbe inoltre in senso redistributivo finanziando gran parte degli investimenti con i miliardi di euro, ancora non precisamente quantificabili, di extraprofitti generati nel 2022 dalle aziende del fossile e da esse reinvestiti principalmente in Buy-back (riacquisto di azioni proprie per aumentare il valore da distribuire in dividendi) e non nel settore rinnovabile (checché si dica nei giardini targati Eni Plenitude di Sanremo). Sotto il profilo della mobilità, ad esempio, si può stimare un fabbisogno aggiuntivo, rispetto agli investimenti già previsti, di almeno 650 treni regionali, tra nuovi e ammodernati, di 180 treni metropolitani e 320 tram; inoltre, andrebbero realizzati o finanziati più di 500 km tra tram e metro. Tutto per la cifra, dilazionabile in 10 anni, di soli 5 miliardi di euro. E non si dica che sarebbe un duro colpo per il settore dell’automobile, che dall’Italia sta già fuggendo (si veda FCA e il suo indotto), quando altresì sarebbe un volano sul piano occupazionale e di reindustrializzazione di molti stabilimenti delocalizzati o in dismissione del settore (tra tutti si veda appunto il piano di reindustrializzazione della GKN, che produceva, prima di essere chiusa, semiassi per automobili e veicoli commerciali).
Gli scioperi per il clima servono dunque a creare un consenso popolare sufficiente a spingere per l’adozione da parte delle istituzioni delle soluzioni già esistenti alla crisi climatica. Questo risultato può essere ottenuto solo muovendosi prudentemente “sul crinale tra il rischio della marginalizzazione ideologica e quello della spoliticizzazione mainstream” (come scrivono Lorenzo Zamponi e Jacopo Custodi nel recente e prezioso lavoro “Guida rapida alla fine del mondo”). Cercando la trasversalità della composizione sociale ma tenendo bene a mente, per evitare non volute derive di greenwashing, che la parte giusta è quella del cosiddetto 99%.