Negli uffici di Grand Canal Square, a Dublino, la notizia circola ormai da un po’ e il motivo è chiaro: in Italia si indaga su un omesso pagamento dell’Iva (per ora ovviamente presunto) che vale circa 220 milioni di euro. E questa cifra riguarda soltanto il fisco italiano. Se il fenomeno fosse accertato e si moltiplicasse per gli altri 27 paesi europei sarebbe un terremoto. Al centro dell’indagine fiscale – che il Fatto può rivelare in esclusiva – c’è la Meta Platforms Ireland, nota ai più come Meta, ovvero la società guidata da Mark Zuckerberg. Il colosso social che controlla Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger. In Europa la sede legale di Meta è a pochi metri dal porto di Dublino, ma sotto impulso della procura europea (che non ha aperto un fascicolo penale, il tutto è in fase d’istruttoria amministrativa) la nostra Guardia di Finanza ha acceso il faro sui conti della multinazionale nata in California. Accertamenti che hanno visto partecipare anche la nostra Agenzia delle Entrate e potrebbero presto ampliarsi a livello europeo. Le verifiche su Meta e i risultati raggiunti rischiano di diventare una pietra miliare, al di là della somma da recuperare, anche per i suoi sviluppi potenziali nel mercato dei social network.
L’oggetto degli accertamenti è l’Iva. Il punto, però, è che siamo dinanzi a un inedito che può costituire un precedente anche per gli altri colossi dell’universo social e anche per gli altri Paesi Ue. Vediamo perché.
La presunta Iva non pagata da Meta, infatti, riguarda – semplificando al massimo – proprio le iscrizioni degli utenti sulle sue piattaforme social. In sostanza, come è noto, l’iscrizione di ciascun utente su Facebook o Instagram è gratuita. Meta fornisce la sua piattaforma agli utenti senza chiedere un centesimo. Ma anche gli utenti forniscono a Facebook o Instagram qualcosa. Si tratta di un bene molto prezioso: i propri dati. E la loro potenziale profilazione. Essendo una scambio gratuito, in apparenza, non dovrebbe esserci alcun problema. In realtà, secondo analisti e investigatori, saremmo invece dinanzi a una sorta di baratto, più precisamente a una permuta tra beni differenti. Ed è proprio questo il punto: nella permuta, le cessioni di beni e/o le prestazioni di servizi scambiati sono soggette separatamente al regime Iva. E quindi vanno tassate. Ecco perché la Guardia di Finanza è stata incaricata (su input europeo e non soltanto italiano) di analizzare i dati ed effettuare le sue verifiche.
Va da sé che i dati che ciascun utente fornisce a Instagram o Facebook possono essere monetizzati. E Meta ne può trarre un profitto. Un profitto che nasce proprio da questa permuta originaria ed è quindi soggetta all’imposta sul valore aggiunto (l’Iva). Gli investigatori hanno analizzato i dati e i flussi economici individuando una base imponibile sulla quale la tassa deve essere calcolata e versata. Fatti i calcoli, l’Iva che Meta avrebbe dovuto versare in Italia, nel 2021, ammonta a circa 220 milioni di euro. E non è poco.
Se così fosse, non soltanto nelle casse dello Stato entrerebbe una bella cifra, ma il principio potrebbe essere esteso a qualsiasi multinazionale del settore. Ed è proprio qui la potenziale portata “storica” dell’indagine affidata alla Guardia di Finanza (e anche dei suoi eventuali sviluppi europei). Storica anche per un altro motivo: non è in discussione la tutela dei dati sotto il profilo della privacy ma, per la prima volta, il loro peso sotto il profilo finanziario e fiscale (non ci risulta che a Meta siano contestate irregolarità nel loro trattamento). Il principio di non colpevolezza vale ovviamente anche per la società guidata da Zuckerberg e questa tesi deve ancora essere dimostrata. Negli uffici di Grand Canal Square, però, pare che non vi sia molta voglia di spingersi a un “muro contro muro”. E l’ipotesi di versare il dovuto (secondo la tesi di Finanza e Agenzia delle Entrate) non è scartata a priori.
La notizia, peraltro, è giunta proprio quando Meta ha deciso – seguendo le orme di Twitter e il nuovo corso inaugurato da Elon Musk – di infrangere il tabù della gratuità. In queste settimane il colosso di Menlo Park ha annunciato di aver introdotto le iscrizioni a pagamento. Zuckerberg ha infatti deciso che, agli account che pagheranno un canone, la piattaforma consentirà una “autenticazione” che sarà riconoscibile attraverso una spunta blu. Non solo. Gli account a pagamento usufruiranno anche di un’assistenza più rapida e di una maggiore protezione contro i furti d’identità.
Se queste sono le novità che Meta ha deciso di introdurre nel mercato dei social, ora resta da capire quanto l’inchiesta della Gdf inciderà sia nel settore della sua tassazione, sia nell’imprimere una valutazione economica dei dati forniti dagli utenti. E soprattutto: se Meta deciderà di aderire alla richiesta di pagare 220 milioni oppure no.