Trent’anni di lotte e spettacoli. Trent’anni in cui il Teatro delle Donne di Firenze si è accreditato tra i centri più qualificati della drammaturgia contemporanea attraverso un teatro pensato, scritto e realizzato dalle donne. Nato a Firenze negli anni Novanta con l’obiettivo di portare sul palcoscenico la questione femminile, il Teatro delle Donne ha realizzato e diffuso spettacoli innovativi, collaborando con le maggiori autrici italiane e internazionali. Un anniversario che viene celebrato con l’uscita del libro “Il Teatro delle Donne – 30 anni”, curato da Elisabetta Meccariello, introduzione di Maria Cristina Ghelli (presidente e direttrice artistica), con un contributo di Stefano Massini (a lungo autore e regista residente del Centro di Drammaturgia del Teatro delle Donne) edizioni Polistampa. Di seguito la prefazione a firma di Dacia Maraini, fondatrice della scuola di scrittura teatrale del Teatro delle Donne.
Ricordo ancora i miei viaggi a Firenze degli anni ’90, l’incontro alla stazione con l’instancabile, laboriosa, appassionata Cristina Ghelli. E le corse in macchina, prima verso Sesto Fiorentino e poi verso Calenzano. L’incontro con le attrici, le registe, le organizzatrici, le tecniche. C’era un fervore che oggi, in questa deriva reazionaria, mi sembra illanguidito. Ricordo le discussioni che duravano fino a notte. Eppure gli anni ’70 erano ormai rimasti alle spalle. Ma pure, rispetto ad oggi, l’aria che respiravamo era piena di progetti e di promesse. C’è da chiedersi: ma cosa è successo nel frattempo? Il teatro ufficiale sembra essersi chiuso su se stesso in una specie di dittatura registica. Gli autori sono stati messi da parte come se non ci fosse più niente di sociale, di nuovo da dire. Si prendono i grandi classici e li si mettono in scena manipolandoli come conviene a se stessi e alle proprie convinzioni. Si è arrivati al grottesco di ridurre per la scena un romanzo di Pirandello, trascurando la sua magnifica drammaturgia. I maligni dicono che lo facciano per accaparrarsi i diritti d’autore. Ma io non credo che la cosa sia così semplice. Oltre agli interessi ci sono le convinzioni e una di queste sta nell’idea che il teatro possa benissimo fare a meno del drammaturgo. Si prende un famoso romanzo classico, lo si cuce addosso alla propria compagnia e si va in scena. Il nome che attira c’è, anche se si sono perse le sue parole, la gente va a vedere Pirandello senza rendersi conto che si tratta di un adattamento tagliato e cucito sul grande attore o la grande attrice, con la complicità del grande regista. Ma in questo modo si trascura il semplicissimo principio che la drammaturgia ha bisogno di una competenza specifica a lungo esercitata.
Può succedere infatti che un grande drammaturgo si metta a fare la regia, ma non il contrario, ovvero che un grande regista diventi drammaturgo. Questa è storia. Il regista insomma alla fine si prende tutta la responsabilità dello spettacolo, dimenticando che il teatro è prima di tutto azione collettiva, che la creatività e la competenza specifica di autori, registi, attori, tecnici è fondamentale per la sua crescita. Chi crede ancora all’arte delle parole, chi vuole raccontare il presente è costretto a farlo a sue spese, in piccoli teatri, con piccole compagnie, contando sul volontariato dei partecipanti.
Con questo spirito nasce il Teatro delle Donne, che ha cercato di raccogliere tutte le esperienze precedenti, le iniziative di piccole coraggiose compagnie, come quella di Carlina Torta, di Lucia Vasilicò, Silvia Calamai, Barbara Nativi, Lucia Poli, Valeria Moretti, Stefania Porrino, Donatella Diamanti, senza dimenticare il Teatro della Maddalena di Roma che nasce nel 1973. Proprio nel ’73, fondando una compagnia e allestendo un palcoscenico in una cantina romana, ho imparato molto del linguaggio complesso e misterioso del teatro. Ho anche imparato che il forte carattere simbolico del palcoscenico, essendo un luogo di forza propulsiva e di agnizione, è sempre stato impedito alle donne, considerate non degne di un valore rappresentativo. La parola emblematica, la parola sacra che fioriva all’apertura delle quinte, non poteva stare nella bocca e nel corpo di una donna, così fragile e debole e pericolosamente seduttiva per la cultura patriarcale. L’ho scritto negli anni Settanta, quando nessuno pensava che anche le donne potessero esprimersi in proprio oltre che ripetere meccanicamente le parole dei grandi padri drammaturghi. Ho approfondito la storia dei generi e ho scoperto la radicalità della esclusione cominciando dal grande teatro greco, per passare a quello romano, sempre minacciosamente intenti ad escludere il corpo e la parola delle donne. Forse solo gli etruschi hanno dato spazio alla immaginazione femminile, ma molte delle attività creative del popolo etrusco sono state cancellate dagli storici, sotto l’influenza del potentissimo e agguerrito Impero Romano e in seguito dalla potentissima, agguerrita e misogina Chiesa romana. Nel Medioevo infatti il teatro viene decisamente proibito nelle sale pubbliche, come pericoloso incoraggiamento al pensiero speculativo. Si poteva recitare solo sui sagrati delle chiese e si doveva raccontare solamente la storia di Gesù Cristo e dei santi a lui devoti. In quel caso le parti riguardanti la Madonna e le sante venivano recitate da uomini con abiti e maschere femminili. Il corpo femminile era considerato nemico della sacralità e vergognosamente vicino alla natura incontrollabile e al demonio. Voglio ricordare a questo proposito la straordinaria Rosvita che, pur stando chiusa nel convento di Gandersheim, e siamo nel 900 dopo Cristo, scrive testi teatrali di grande coraggio che fa recitare alle consorelle. Ma lì sono rimasti, quei testi, nei cassetti dei conventi, senza che nessuno abbia mai considerata Rosvita come una autrice degna di attenzione. Solo nel Cinquecento, col Rinascimento che è decisamente la rivoluzione europea più importante, nasce per la prima volta un teatro che si oppone al totalitarismo religioso, per imporre il concetto di individuo laico e libero. Le donne salgono sul palcoscenico a pieno diritto, e qualche volta sono anche autrici e direttrici di compagnia. E subito portano in scena le loro idee sul matrimonio e sull’amore.
Poi purtroppo tutto si richiude con la Controriforma, dannazione della nostra storia. Ma qualcosa rimane, tanto è vero che, sebbene le donne siano tornate a tacere, alcuni drammaturghi come il nostro magnifico Goldoni hanno portato avanti le rivendicazioni dell’altra metà del cielo, come quella di scegliersi il marito o di dire apertamente il proprio parere sulle cose. Mirandolina è certamente una donna di carattere, una protagonista degna di attenzione.
Nel 2004 è nata l’idea di una scuola di teatro. Nel nostro Paese la scrittura teatrale, come ho già detto, è ben poco considerata. L’autore, quello che scrive il testo, non viene quasi mai coinvolto. Questo non succede in molti altri Paesi europei dove l’autore, il dramaturg, è una figura essenziale per ogni rappresentazione teatrale. La Scuola di drammaturgia di Gioia dei Marsi, che io dirigevo, ha proposto al Teatro delle Donne, con cui esisteva una storica collaborazione, di dare vita a una Scuola di drammaturgia nazionale. L’intento non è stato solo quello di organizzare un corso di scrittura, ma quello di “fondare” una scuola, darle una struttura, dei locali, una “stanzialità”, stabilire dei rapporti con le sedi universitarie della Toscana e dell’Abruzzo, per farne un punto di riferimento concreto per chiunque ami il teatro e voglia scrivere per la scena. Oggi, purtroppo, la scuola teatrale di Gioia dei Marsi è stata chiusa per divergenze interne al Comune di Gioia. Voglio ricordare che alla scuola hanno partecipato grandi teatranti come Emma Dante, Stefano Massini, Piera Degli Esposti, Fabrizio Gifuni, Manuela Giordano, Spiro Scimone, Sista Bramini, Nico Garrone, Boris Vecchio, Ottavia Piccolo, Roberto Capaldo, Giuseppe Manfridi, Federica Festa, Mariangela Melato e altri straordinari operatori della scena. La scuola toscana invece, per fortuna, ha resistito. Cristina Ghelli, con una energia e una tenacia straordinaria, ha ripreso dopo quasi tre anni di pandemia il leggero filo strappato e riannodato tante volte, che lega il passato stentato del teatro a firma femminile con un presente più egualitario, per difendere e diffondere il teatro delle donne. È stata una esperienza molto importante per chi l’ha potuta vivere. Quegli incontri, quelle discussioni, quel confrontarsi sulle idee e sui progetti, sono stati formativi per tante di noi e dobbiamo ringraziare Cristina per non avere mai ceduto allo scoraggiamento e alle crisi che ci hanno accompagnato. Il Teatro delle Donne non finisce qui, nonostante il periodo poco favorevole sia al teatro in genere, che alle parole delle donne. Continua e si trasferisce in un luogo più centrale e più prestigioso. E questo ci deve incoraggiare, anche ringraziando l’Amministrazione fiorentina e il Maggio musicale che, forti delle grandi tradizioni trascorse, hanno messo a disposizione della creatività femminile un antico e prestigioso teatro, il Goldoni.