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Quello a cui abbiamo assistito in questi dodici mesi è un’escalation di armi e di violenza. La guerra porta altra guerra e la pace duratura difficilmente si ottiene con le armi. D’altronde la guerra si vince proprio con le armi, e con gli uomini. Persone che, alla stregua di burattini, vengono mandati in trincea come carne da macello. A oggi sarebbero più di duecentomila i soldati persi da entrambi gli schieramenti: i militari devono uccidere altri militari se non vogliono morire sul campo. Sono invece più di diecimila – secondo le cifre ufficiali che sottostimano i numeri – le vittime civili che questa guerra non la volevano, e con la quale non avevano nulla da spartire: morti che nessuno ricorderà e famiglie che non riceveranno una medaglia al coraggio in memoria dei propri cari.
Vengono chiamati effetti collaterali o prezzo da pagare: queste sono le leggi della violenza. Mi chiedo allora quali siano le vere vittime di questa guerra. Ho imparato nel tempo che il conflitto non termina quando finiscono le ostilità, bensì si protrae anche quando i riflettori si spengono, cancellando i sogni di un futuro diverso e la speranza che tutto ritorni come prima.
Gli ultimi, gli anziani, i disabili e i feriti sono scomparsi nell’oblio di una violenza che non accetta i deboli ma deve mostrare solo i muscoli e la sua forza omicida verso il nemico.
Effetti collaterali: i vecchi in cerca di cibo
Per loro sarebbe dovuta finire diversamente, avrebbero dovuto passare la vecchiaia al parco con i nipoti o intorno a un tavola imbandita con la famiglia e non da soli in uno scantinato alla ricerca di cibo.
Ora i figli e i figli dei loro figli sono invece al fronte a combattere l’invasore russo in quella terra di nessuno, dove gli edifici sono diventati inutili macerie. A Kryvyi Rih, città natale del presidente Zelensky, sono migliaia gli sfollati interni arrivati, perché i boati dell’artiglieria russa faticano a raggiungerla e si può respirare un pur relativo senso di incolumità
Kharkiv, seconda metropoli del Paese, prima della guerra contava un milione e mezzo di persone; ora nei quartieri periferici gli anziani si aggirano come spettri con l’unico obiettivo di vedere una nuova alba.
E così a Kramatorsk, a Mikolaiv e Zaporizhzhia e nei centinaia di villaggi di cui mai ricorderemo il nome.
Ho visto donne dell’età di mia madre elemosinare un pezzo di pane e bambini sorridere da un letto d’ospedale dopo avere subito operazioni per estrarre i frammenti di mortaio rimasti incastonati nel loro fragile corpo.
Una disperazione silenziosa e senza futuro
Ho parlato con nonni che condividono una stanza di quindici metri quadrati, malati di tumore, e che a stento riescono ad alzarsi dal loro giaciglio. Scuole ed edifici trasformati in rifugi dove solo le organizzazioni umanitarie – fra le quali l’italiana Intersos, che sta portando avanti il progetto che ho visitato in Ucraina con il sostegno dell’Unione Europea – promettono la sopravvivenza.
Nikolay Pavlovych mi guarda negli occhi ma non riesce a sorridere: vede il mondo dalla grande finestra sopra di lui che fa entrare la luce sufficiente per scattare una fotografia. Sdraiato sul suo letto si regge alla vita che lentamente gli scivola via e intorno a sé ha quello che la guerra gli ha lasciato: un dormitorio umido e un davanzale che cola umidità e tristezza.
Dall’altra parte della stanza Victor Stepanovych guarda il vuoto, come stesse aspettando risposte, che non avrà mai. Hanno la stessa camicia ma a stento si riconoscono. Fra di loro un tavolo spoglio con un tagliere e sopra un pezzo di formaggio che li attende.
Lisa nasconde le gambe ferite e vuol solo dormire
Liza ha tre anni e nasconde le gambe nascoste dalle coperte a fiori rosa. Conficcate nella schiena ha schegge di un mortaio che hanno rallentato i suoi passi. Con la sua famiglia è stata ferita a Bahkmut, oggi il fronte più violento della guerra: il padre è stato portato via in ambulanza verso Dnipro mentre lei insieme a sua madre, sono state evacuate a Leopoli. Accolte in due diversi ospedali della città, Lisa si è trovata così improvvisamente sola, ricoverata nel reparto di neurochirurgia, spaventata e confusa. Ha provato così a ingannare se stessa e la guerra, facendo finta di dormire per giornate intere, per non disturbare nessuno e per non essere disturbata.
Fino dove siamo disposti ad arrivare prima di parlare di pace? Parola che oggi pare esser svuotata e violentata del suo significato originario. La pace ha un costo, quello del compromesso. La pace non rende e non interessa ai potenti di questo mondo che alla fine delle ostilità preferiscono il sangue delle vittime innocenti.