La segnalazione di Frontex – l’Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera – giunge intorno alle 22:30 di sabato 25 febbraio. Ed è chiara. La Guardia Costiera di Reggio Calabria – che dipende dal ministro Matteo Salvini – riceve la rilevazione termica dell’imbarcazione: risulta particolarmente “intensa” e soprattutto “ampia”. La comunicazione è precisa fino a questo punto: “a bordo c’è un telefono cellulare turco”. È chiaro che si tratta di scafisti e migranti. E sono chiare anche le imminenti condizioni meteorologiche. È da questo momento che può partire la catena dei soccorsi per evitare (quantomeno provarci) la tragedia del 26 febbraio: 63 vittime annegate (circa 20 bambini) e soprattutto annunciate. Se fosse stato lanciato il Sar qualsiasi imbarcazione vicina sarebbe stata obbligata al soccorso sin dal principio. Ma invece della catena dei soccorsi, parte quella dell’ipocrisia, della formalità: finché l’imbarcazione non chiede aiuto, il soccorso non si attiva, se ne discute quando la barca entrerà in acque territoriali. Il Sar non c’è e la richiesta non arriverà mai: gli scafisti, con mare forza 7, vento e onde che spingono sulla poppa, si dirigono verso la costa, anzi, verso una secca segnalata sulle carte. Ed è la fine. Ma c’è di peggio. “Alle 5:40 la Guardia Costiera – dice il pescatore Antonio Grazioso alla tv BG Calabria – mi ha chiamato perché mi segnalava una barca in avaria e voleva capire cosa fosse accaduto. Era già una strage. Ho visto i cadaveri che sparivano tra le onde”. E quindi: la Guardia Costiera, che può contare su mezzi inaffondabili come le motovedette CP 321 e 323 (non caso chiamate “ognitempo” oppure “inaffondabili”) che chiede a un pescatore del posto di controllare il destino di un barcone (segnalato sette ore prima da Frontex). I carabinieri del posto ricevono invece una richiesta di aiuto in inglese. Secondo alcune fonti non sarebbe giunta dall’imbarcazione. Ma pare un controsenso: chi altri avrebbe telefonato urlando “help”? La telefonata arriva comunque quando è troppo tardi.
La spiegazione ufficiale sul mancato soccorso, a dispetto dei CP 321 e 323, è che non c’erano mezzi in grado di gestire le condizioni del mare. Ma in realtà, come dice a Non è l’arena l’ex dirigente medico della polizia di Stato, Orlando Amodeo, nel dicembre 2013, con mare forza 8, 40 miglia al largo di Crotone, le motovedette della Guardia Costiera salvarono 142 persone. Perché questa volta, invece, non è accaduto?
Vuole capirlo anche la Procura di Crotone, guidata dal procuratore Giuseppe Capoccia, che ieri ha acquisito la documentazione trasmessa da Frontex e altre comunicazioni. L’analisi dei documenti consentirà di capire se, accanto alle ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio, contestate agli scafisti, s’indagherà sui mancati soccorsi. Ma non è ancora tutto.
La segnalazione di Frontex giunge anche alla Guardia di Finanza. Ed è un dettaglio molto importante, perché la Gdf non resta con le mani in mano. Si attiva per quella che, in gergo, si chiama law and enforcement: un’operazione di polizia. È la sua competenza. Segno che ipotizza immediatamente la presenza di immigrati irregolari a bordo. I finanzieri mollano gli ormeggi e partono. Tra i loro obiettivi, date le condizioni marittime, c’è anche quello del salvataggio. Occhio all’orario. Le due motovedette della Gdf partono una prima volta tra le 00:30 e l’una di notte. L’intenzione è quella di portare l’imbarcazione, se possibile, in un luogo riparato. Ma rientrano presto. Il mare, per le loro imbarcazioni – destinate a inseguimenti e abbordaggi, ma non ai salvataggi in queste condizioni – è infatti proibitivo. Ripartono una seconda volta intorno alle 2. Niente da fare. Insomma, la Gdf, che non ha i mezzi adatti, comunque ci prova. E subito. La Guardia Costiera resta immobile. L’unico tentativo di aiuto è stato tentato da chi è deputato alla repressione e non al salvataggio.