Non vorrei la si facesse facile: i problemi che affliggono il Pd stanno tutti lì; non vorrei si passasse dalla diagnosi infausta di un partito estinto alla euforia. E tuttavia la vittoria della Schlein è una buona notizia. Anche i più severi critici – mi ci metto anche io – devono riconoscere che da quelle parti ancora c’è vita. Penso a una partecipazione larga nelle condizioni (politiche e psicologiche) date; all’aria nuova e fresca (cfr. Occhetto) di cui la Schlein è stata portatrice e catalizzatrice. Persino a un certo entusiasmo cui ella ha saputo dare volto e voce, veicolando l’idea di “crederci” dentro un partito affollato da politici di professione. Penso al decisivo contributo fornito alla sua elezione da parte di giovani e donne.
Si discute giustamente sulla regola che mette nelle mani degli elettori e non solo degli iscritti la scelta del segretario del partito e tuttavia, nelle condizioni critiche in cui versa il Pd, quella controversa regola si è rivelata provvidenziale. Per logiche e dinamiche tutte e solo interne, per il Pd non c’era e non c’è salvezza. La tanto declamata “vocazione maggioritaria” del Pd non va intesa in un senso angustamente politicista con riguardo alla politica delle alleanze tra partiti, ma piuttosto come consapevolezza, certificata dalle primarie, che c’è un più vasto mondo sensibile alla sorte del partito e più ancora del campo progressista (o comunque interessato a un’alternativa alle destre che ci governano). Un mondo da interpretare, da rappresentare, soprattutto da meritare.
Apprezzabile l’impegno della Schlein a coinvolgere stabilmente gli elettori delle primarie. Una risorsa mai in concreto coltivata dai segretari Pd. Essenziale il pluralismo delle culture politiche riformiste, ma – così Schlein – su una linea politica chiara e riconoscibile. L’opposto del “ma anche…”; del governismo che, nel tempo, ha finito per conferire al Pd una seconda natura; dell’appiattimento su governi tecnici che mortificano l’autonomia e la responsabilità della politica intesa come competizione tra offerte politiche tra loro alternative. Insisto: alternative. Cominciando con il fare ferma e risoluta opposizione, senza ammiccamenti alla Meloni “capace”. Semmai, dalla Meloni, apprendendo la lezione che si cresce e si vince muovendo da una identità politica marcata che si avvantaggia di un’autonomia nell’esercizio della leadership.
Il voto politico è sempre più mobile, deideologizzato, centrato sui leader. Esagero: può persino transitare da Meloni a Schlein (e viceversa). Nei panni dei “terzopolisti” non mi farei soverchie illusioni sulle “praterie” dischiuse loro. Una leadership Pd affrancata dal patto di sindacato tra i capicorrente. Sul punto, era fallace la rappresentazione accreditata da Bonaccini circa il decisivo sostegno alla sua avversaria delle correnti che contano. Nella contesa, la sola corrente sopravvissuta alla disarticolazione è stata semmai quella degli ex renziani schieratasi per intero a suo supporto. Al centro e in periferia. Lo detta la logica: per definizione, le correnti di potere e i “satrapi” – vedi De Luca – si dislocano a sostegno del favorito. E qui meriterebbe un cenno alla siderale distonia dei media mainstream espressione dell’establishment i quali, tutti, pronosticavano (e tifavano per) tutt’altro. Ha detto bene Schlein: “Non ci hanno sentito arrivare”.
Ora ci si chiede se la vincitrice saprà fare sintesi delle differenze interne. Un problema reale. Ma ha ragione Cacciari: in caso contrario comunque sarebbe un chiarimento. Meglio di un partito in declino irreversibile dall’identità irrisolta.