Torna in libreria, per Cliquot, “Le droghe”, l’opera di Laudomia Bonanni che nel 1982 segnò probabilmente il declino definitivo della grande scrittrice. Amata e coccolata, poi ignorata e dimenticata. Non è un romanzo sulle droghe – l’ombra mortifera della dipendenza da eroina aleggerà solo sulle ultimissime pagine – ma la storia di una famiglia dove ognuno vive la sua solitudine intossicata, la sua defezione anestetizzante da una vita pienamente vissuta. Ma è anche una grande metafora letteraria sulle passioni. Pubblichiamo qui la prefazione firmata da Sandra Petrignani.
Era l’inizio del 1983 quando ho conosciuto Laudomia Bonanni. Le droghe era uscito l’anno prima in tarda primavera. Era andato malissimo e lei ne soffriva ancora. Un romanzo in cui aveva raggiunto – mi disse – “una prosa di una leggerezza e di una trasparenza che mi hanno reso molto soddisfatta” e che Valentino Bompiani, il suo editore, aveva accolto con entusiasmo. “Ancora una volta un ottimo libro” le aveva scritto. Ma le cose erano andate storte. Era uscito nel momento sbagliato. La casa editrice, che già da un decennio aveva cambiato proprietà passando alla Fiat, era in un momento di radicale ristrutturazione, licenziamenti, nuovo ufficio stampa.
Le droghe fu abbandonato a sé stesso e passò completamente inosservato. Poche, insignificanti le recensioni. Il romanzo successivo, La rappresaglia, le fu addirittura rifiutato visto che il precedente non aveva venduto niente. E allora Laudomia Bonanni smise di scrivere. Visse ancora una ventina d’anni senza scrivere più se non lettere private, morendo quasi novantacinquenne, dimenticata. Eppure aveva ragione: Le droghe è un romanzo dall’impostazione e la lingua piuttosto straordinarie. Non parlerei di “leggerezza”, e poi spiegherò perché, ma di “trasparenza” sì. Se intendiamo la scrittura come qualcosa che non si limita a descrivere, ma scende in profondità per interpretare, scende là dove davvero, come per incanto, le cose della vita diventano trasparenti, questo libro lo fa. Quante volte è stato raccontato il desiderio di maternità e quante volte è stata narrata la maternità. La scommessa di un autore che si misura con un tema, diciamo così, usurato o anche solo troppo frequentato, è trovare “le parole per dirlo”. Parole nuove, parole che accendano ancora una volta nel lettore il gusto della scoperta, del non ancora noto.
Bonanni sceglie di raccontare una donna, diversa da lei nelle storie della vita, ma alla quale presta probabilmente la propria sensibilità e la propria fantasia di madre. In un’intervista mi disse chiaramente: “Forse ho un solo rimpianto: quello di non aver voluto un figlio”. Ho sempre pensato che Le droghe fosse il risarcimento per quell’esperienza che si era negata. Perché mi aveva colpito molto la scelta del verbo “voluto”. Non si era trattato di non aver potuto avere figli, ma di una drastica decisione con tutti i rischi che comportano simili imposizioni.
Prima accennavo alla leggerezza. Non definirei questo un libro leggero, perché affronta le difficoltà serissime di un bambino che poi diventa un adolescente troppo sensibile e poi un giovane che mette a rischio la sua stessa vita. E racconta di una madre, una matrigna addirittura, che però si è assunta interamente il compito della responsabilità materna, alla quale spesso la situazione sfugge e che più di una volta preferisce fare un passo indietro invece che in avanti, perché sente oscuramente quanto sia questo il comportamento giusto. Ma resta comunque piena di dubbi. Capisco in che senso Laudomia Bonanni parlava di leggerezza. La pesantezza dell’essere, che descrive, effettivamente non travolge le parole. Le parole restano leggere. In questo senso, sì, la narratrice ha compiuto un altro piccolo miracolo: parlare di ansia, solitudine, preoccupazione, e anche felicità, suggerendo più che spiegando dettagli “pesanti”. Perché basta il segno rosso sul muro che evoca il sangue, basta la notizia su un giornale che non la riguarda direttamente, ma potrebbe farlo, basta l’accenno che ascolta da un’amica sfuggente a dire tutto, senza la necessità di scriverlo questo tutto. Il lettore ha il suo lavoro da fare: intuire, riempire i vuoti di una storia che va avanti e indietro nel tempo, che si limita, appunto, a suggerire.
“Le passioni hanno di buono che ci buttano fuori di noi stessi” si legge a un certo punto. Anche la passione materna. E in questa possibilità di uscire da sé stessi si può cogliere persino una metafora letteraria: anche il lettore appassionato esce da sé stesso. Segue una storia, e qui c’è un padre biologico che passa il compito di educare il figlio, e persino quello di amarlo, a una moglie che non è la vera madre, perché la vera madre è morta. Segue fatti che appaiono con un loro particolare bagliore a illuminare momenti di essere non necessariamente ordinati cronologicamente. S’interroga, torna indietro per vedere se ha capito bene… ed ecco, non è più sé stesso. È completamente dentro una vicenda che non gli appartiene, ma che misteriosamente gli ha spiegato qualcosa dei suoi sentimenti.
Laudomia Bonanni è stata una scrittrice capace di fare queste magie, capace – per dirlo altrimenti – di letteratura. E non solo con questo romanzo. Esordì in un momento di grande attenzione verso i nuovi scrittori. Era il 1948, si tentava di risorgere dalle macerie della guerra. Intellettuali e artisti tornavano a frequentarsi con più desiderio di prima di confrontarsi, sapersi vivi e capaci di creare qualcosa di nuovo e di buono. C’era un senso di rinascita, una gran voglia di esprimersi e di ascoltare gli altri. In questo clima era nato il Premio Strega, in questo clima Casa Bellonci, la casa ai Parioli dove era stato inventato lo Strega appunto, aveva indetto (fu l’unica volta però) un premio nel premio riservato agli inediti, il Premio Amici della Domenica. Bonanni aveva già quarant’anni, era una maestra elementare di provincia, ma con una cultura mostruosa. Non aveva fatto altro che leggere fin da piccola, cimentandosi con la scrittura per solitudine, per passione. E così inviò agli Amici della Domenica i suoi racconti raccolti col titolo Il fosso. Aspri, duri, bellissimi. Piacquero a quella giuria di esperti e vinse il premio. Fu invitata a Roma, coccolata, da Maria Bellonci come da Elsa Morante, da Emilio Cecchi e da Anna Banti. I suoi miti letterari. “Furono di una fraternità straordinaria” mi raccontò lei stessa. Eugenio Montale la paragonò in una recensione al James Joyce di Gente di Dublino.
Poi vennero altri libri e altri premi. L’imputata nel 1960 vinse il Viareggio, L’adultera, quattro anni dopo, il Selezione Campiello. Dieci anni di silenzio dovuti a una lunga depressione, e poi la straziante riflessione sulla devianza giovanile e sulla violenza, Vietato ai minori, cui seguì nel 1977 Città del tabacco e Il bambino di pietra, elaborazione della crisi depressiva che legge in chiave femminile, se non femminista. Sembrava ormai ben sistemata nel panorama letterario italiano. Ma era una donna schiva, e i tempi andavano cambiando. Non le piaceva come cambiavano i tempi. Non le piaceva come cambiavano gli scrittori, e l’editoria. Lei non sapeva coltivare le amicizie. Forse la sua solitudine venne scambiata per arroganza e quel clima fraterno si spense a poco a poco. Mentre lei si confrontava con la durezza di vite difficili: quei giovani deviati che incontrava per il suo lavoro, consulente presso il Tribunale dei minori, oggi diremmo assistente sociale.
“La letteratura si è presa tutto, è rimasto poco per il resto” diceva anche. A noi almeno restano i suoi libri. Tocca a noi, dunque, leggerli e farli vivere. Come in questo caso, come con questo Le droghe che non parla soltanto delle droghe che si iniettano in vena o si respirano attraverso il naso, o si fumano, o si mangiano. Parla soprattutto del modo drogato che abbiamo di giudicare le cose della vita, della difficoltà, a volte, di spostare la tenda che nasconde l’essenziale impedendoci di confrontarci con la realtà più autentica. Quella interiore.