Passata la sbornia delle mimose, degli auguri e degli hashtag #ottomarzo, val la pena fare una piccola riflessione perché è vero che molti tetti di cristallo sono stati sfondati, ma la partecipazione delle donne alla vita economica e lavorativa resta sacrificata (volendo usare un eufemismo): i numeri che stiamo per dare certificano una situazione cronica che non è solo umiliante per la componente femminile della società, ma rappresenta anche il consapevole suicidio di un intero Paese. L’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ha reso noti i risultati di un’indagine (condotta su un campione di 45 mila donne dai 18 ai 74 anni) sull’occupazione femminile nel nostro Paese, l’unico in Europa in cui sia il governo sia il maggior partito d’opposizione sono guidati da donne. E dunque scopriamo che nulla cambia. La scelta è sempre, troppo spesso, tra maternità e lavoro (con buona pace dell’articolo 3 della Carta, secondo cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).
Dunque le cose stanno così: dopo la nascita di un figlio quasi 1 donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% resta occupata (ma occhio, nel Sud e nelle Isole la percentuale scende al 29). Le donne che non entrano nel mercato del lavoro né prima né dopo la maternità sono il 31,8%, il 6,6% non ha trovato lavoro dopo la nascita del figlio. Le ragioni sono quelle di sempre: al primo posto sta l’impossibilità di conciliare lavoro e cura (52%), ma anche il fatto che dopo la maternità ti lasciano a casa (mancato rinnovo del contratto o licenziamento, 29%). Sulle famiglie, anzi sulle donne, pesa la cronica mancanza di asili nido e servizi: “La scarsità di servizi per la prima infanzia è confermata dalla percentuale di genitori occupati che dichiara di non aver mandato i propri figli in età compresa tra 0 e 36 mesi all’asilo nido (56%). Tra coloro che invece mandano i figli al nido, meno della metà (48%) ha usufruito del servizio pubblico mentre una quota pari al 40% ha utilizzato un asilo nido privato”. I nonni sono l’alternativa di gran lunga più utilizzata (58%) percentuale che al Sud sale al 63. Un’Italia fondata sui nonni, in cui non si fanno più figli: siamo l’ultimo Paese per tasso di fecondità in Europa, l’anno scorso è stato toccato il minimo storico di 400mila nuovi nati.
Che fare? Lo spiega il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda: “Il percorso delle donne verso una piena e stabile occupazione è spesso una vera e propria corsa a ostacoli e ciò nonostante tra le lavoratici si registrino percentuali di laureate e di altamente qualificate più che doppie rispetto agli uomini (!!!). Ma si osserva una marcata distanza anche nell’accesso e nelle caratteristiche dei ruoli di responsabilità: le donne con ruoli apicali hanno la supervisione di una sola persona contro le sette persone supervisionate dai lavoratori maschi. Il cambio di passo non può essere affidato a singoli interventi spot, ma richiede una organica convergenza di tutte le politiche (dalle politiche fiscali ai sistemi di welfare, dagli orari di lavoro alle politiche per la famiglia) per sostenere da un lato le scelte di procreare e allevare i figli e d’altro lato l’effettiva parità di genere in tutta la vita lavorativa, sociale e pensionistica”. Giorgia Meloni ed Elly Schlein dovranno obbligatoriamente impegnarsi per modificare radicalmente il rapporto donne-lavoro: non si tratta solo di politiche per la parità, di dare attuazione all’articolo 3, si tratta di evitare l’estinzione. Se falliscono, non si potranno perdonare.