Si fa presto a dire occupabili. Si fa presto e si fa anche bella figura, omaggiando la nuova regola del sovranismo – anche linguistico – con la traduzione un po’ sfacciata e molto scorretta di un concetto in sé innocuo: employability, uno di quei deprecati anglismi con cui nei posti (abbastanza) seri si indicano le competenze e la capacità delle persone, valutando la loro adeguatezza al mercato del lavoro. Ma nel caso dell’occupabilità diventata perno del diritto a ricevere la Misura di inclusione attiva, punitiva erede del Reddito di cittadinanza, di innocuo non c’è proprio niente. Si tratta invece di un’illusione ottica che colpisce tanto chi il lavoro può averlo quanto chi no, garantendo anche per legge che non tutte le persone che potrebbero lavorare lo facciano davvero, perché così si confà alla società fieramente conservatrice che questo governo ha in mente.
Guardiamole, allora, queste persone occupabili che nelle pretese del governo si trasformeranno da inoperose sussidiate a produttrici di ricchezza. Chi sono, come si identificano? Cosa ci dice che siano effettivamente occupabili? Hanno un titolo di studio specifico? Sanno riparare i lavandini, fare le pizze, montare mobili, progettare siti internet, rispondere al telefono, guidare automobili? Magari sì, ma chisseneimporta. Le e gli occupabili, in questa riforma, sono indicate/i per età e stato famigliare: due variabili asettiche per definire la vita e le speranze di una persona. Sono occupabili coloro che hanno tra i 18 e i 59 anni, non sono disabili e non vivono in famiglie con figli minorenni. A lettura superficiale, in nome di un astratto buon senso, può persino suonare ragionevole. Ma per capire che non lo è basta dare concretezza a questa regola: chi non ha famiglia, in questo schema, è automaticamente occupabile, a dispetto delle effettive caratteristiche, mentre a 60 anni il governo considera cittadini e cittadine improduttivi/e, dunque non più recuperabili. Le persone disabili saranno sempre e soltanto disabili, non lavoratrici, ignorando per legge il contributo che potrebbero portare alla società nonché alla propria felicità. Così come sono condannate le donne con figli sotto i 18 anni: scelta bizzarra in un Paese in cui l’occupazione femminile è un’emergenza e meno della metà delle donne ha un impiego. Non c’è nulla di ragionevole, insomma, nella serie di stereotipi e pregiudizi con cui qualcuno ha declinato la parola occupabilità. C’è, semmai, il desiderio di piegarla a una certa visione del mondo: le donne a casa, a occuparsi di figli e figlie, le persone vecchie inutili e ignorate, quelle disabili relegate alla diversità. E c’è, naturalmente, la volontà di renderla funzionale alla fiorente propaganda: se sei occupabile e un lavoro non ce l’hai, la colpa è tua, quindi non meriti aiuto.
Peccato che – e chissà perché il governo non ne fa mai menzione – tra chi riceveva il Reddito di cittadinanza non ci sono soltanto le persone occupabili: ci sono anche quelle occupate. Già: il 18% dei percettori sono persone che lavorano, che tutte le mattine, invece che sul famigerato divano, siedono su un autobus e vanno a fare il proprio mestiere. Persone impiegate, con contratti stabili e regolari che altrettanto regolarmente prevedono paghe da fame, salari così bassi da non consentire la soglia di sussistenza minima. Lavoratori e lavoratrici che devono percepire un sussidio, perché qualcuno ha ritenuto che fosse decente pagare meno di quanto serva a sopravvivere, senza che lo Stato abbia niente da dire in merito. Individui occupabili, occupati e ugualmente poveri.
Basterebbe questo a smascherare l’inganno dell’occupabilità. Ma per farlo bisognerebbe voler davvero riflettere sulla realtà e avere desiderio di cambiarla. Più facile inventarsi una parola e affidarle il compito di consolidare luoghi comuni e bestialità.