L’incanto si è rotto. Lo storytelling può coprire a lungo la realtà, ma poi arriva un momento in cui la retorica si spezza, l’enfasi si sgonfia, la dopamina cala, e i fatti tornano a imporsi. Sta succedendo con Milano. Da Expo a oggi, una narrazione drogata l’ha raccontata come una metropoli europea, place to be, città vincente, esperienza unica. La sola che tenta “di entrare a far parte del club delle città sexy del mondo: Barcellona, Madrid, Parigi, Berlino, Londra, e spingendo il sogno più in là New York e San Francisco”.
Sviluppo urbanistico, crescita dei valori immobiliari, immagine scintillante hanno generato un orgoglio-Milano nutrito da una poderosa macchina propagandistica messa in moto dalle imprese, dalla politica, dalla stampa. Chi steccava nel coro, indicando le contraddizioni del Modello Milano e rifiutando la stucchevole melassa che l’avvolgeva e soffocava, era reso semplicemente invisibile, inesistente. Ora qualcosa si è spezzato, le voci critiche tornano a farsi sentire.
Un libro di Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano, analizza la macchina della comunicazione su Milano e la smonta, confrontandola con le reali politiche urbane. Un podcast Rai, Sottobosco Orizzontale, racconta la realtà abitativa di Milano, ben diversa dall’esperienza iconica del Bosco Verticale. Chi dalle pagine di questo giornale ha indicato, fin da Expo, l’impostura della narrazione su Milano da oggi è meno solo. Il Modello Milano diventa finalmente campo di riflessione, oggetto di dibattito, al cui mulino l’altroieri Selvaggia Lucarelli ha portato altra acqua sul Fatto.
Naturalmente la prima reazione subito scattata è quella di marginalizzare i pochi che criticano, riducendoli a “odiatori di Milano”. Lo ha scritto ieri il Corriere della Sera: “Adesso odiare Milano è trendy”. Ma intanto il tetto di plastica (non di cristallo) si è rotto, si può tornare a discutere, a mettere in causa il Modello che finora era improcessabile, indiscutibile, incontestabile. Il re era nudo, ma tutti fingevano di non accorgersene, prima che qualche bambino impertinente non lo indicasse con il ditino. A questo punto il tentativo è di ridurre a moda anche la critica alla retorica della città della moda: “Odiare è trendy”.
L’odio è un sentimento, la critica invece è riflessione: io critico Milano non perché la odio, ma proprio perché la amo e non sopporto di vederla ridotta così. La metropoli che era capitale manifatturiera ha da tempo perso le industrie e si è trasformata in un circo di food e influencer, locali per l’ape e pubbliche relazioni. Ma il business che tira davvero è l’immobiliare, che si gonfia come una rana di Esopo, almeno fino al 2026 olimpico, poi si vedrà.
È la terza città con gli affitti più cari d’Europa, ma con stipendi medi ben più bassi che negli altri Paesi. A fare ottimi affari sono i fondi immobiliari, a goderne è un cerchio ristretto. Ma si accontenta anche il rentier-massa, chi ha comprato un appartamento anni fa e ne vede crescere il valore, ormai sostenuto più dalla rendita che dal lavoro. Tutti gli altri sono a rischio espulsione, ma nessuno li ha raccontati, finora. Nessuno dà conto degli sfratti quotidiani, dei mutui in banca non onorati, delle case messe all’asta. Nessuno racconta i marciapiedi sconnessi (lo ha fatto su queste pagine soltanto Nando dalla Chiesa, spiegando che sono “la prova dell’esistenza della ’ndrangheta” – e degli appalti vinti al massimo ribasso). Nessuno mette in rilievo i dati sul consumo di suolo (altissimo), sulla qualità dell’aria (pessima), sugli oneri d’urbanizzazione (i più bassi d’Europa) che non restituiscono ai cittadini nulla dei profitti immobiliari. Con un sindaco “verde” che la rende capitale del greenwashing e che punta non a renderla vivibile per i suoi cittadini, ma “attrattiva” per i capitali internazionali e cool per i city users.