Maurizio Landini ha fatto bene a invitare Giorgia Meloni al congresso nazionale della Cgil che si apre domani a Rimini. Né deve stupire che lei abbia subito raccolto la sfida, accettando di intervenirvi, dopo una vita di attacchi beceri a quel sindacalismo confederale che la destra post-fascista ha sempre chiamato spregiativamente “la triplice”. Entrambi sanno che Fratelli d’Italia ha raccolto una buona messe di voti tra quei lavoratori dipendenti che attribuiscono il peggioramento delle loro condizioni alla globalizzazione, e in particolare alla concorrenza degli immigrati; tanto che la stessa Meloni, col suo profilo decisionista, ha fatto breccia anche fra gli iscritti al sindacato.
A misurarsi con questa scomoda realtà arriva giovedì a Rimini pure la neo-segretaria del Pd, Elly Schlein. Se la scelta di classe della Cgil dipendesse dalle origini sociali delle due contendenti, quest’ultima dovrebbe partire svantaggiata: la borgatara Giorgia contro la borghese Elly. In questo caso però le apparenze ingannano. E non solo perché Meloni è donna bene insediata nel potere dacché divenne ministra nel governo Berlusconi; mentre Schlein ha scalato il Pd partendo dalla militanza di base nel femminismo e nell’ambientalismo.
Ora che FdI ha preso in mano le leve del governo, e la cortina fumogena della propaganda populista comincia a diradarsi, affiora con nettezza quella che da un secolo rimane la vocazione naturale della destra: fomentare la guerra fra poveri, accusare di parassitismo gli emarginati, ergersi a paladina dell’Italia “grande proletaria”, senza mai entrare in collisione con gli interessi del padronato. Un esempio lampante di questa propensione è il favore che il governo Meloni ha appena fatto all’industria automobilistica Stellantis di cui John Elkann è presidente: schierandosi contro la direttiva europea che vuole imporre lo stop alla produzione di motori a combustibile fossile entro il 2035. Vero è che anche la Germania guidata da un cancelliere socialdemocratico sembra, per il momento, assecondare le convenienze del suo comparto automotive. Su Il Fatto di ieri Ettore Boffano ci informava che a Berlino la partita è ancora aperta e potrebbero esserci ripensamenti.
Sarà interessante apprendere dalla relazione di Landini, già segretario dei metalmeccanici, quale posizione assumerà in merito la Cgil. Il sindacato che ha visto crollare la produzione di veicoli negli stabilimenti italiani mentre Exor investiva all’estero e incassava lucrosi dividendi, con la Fiom tagliata fuori per anni dalla contrattazione aziendale, quale politica industriale e ambientale immagina per l’Italia di qui al 2035? Lo stesso vale per i comparti industriali degli armamenti, dell’acciaio e del settore energetico in cui il governo rilancia trivellazioni e centrali a carbone: è questa una retromarcia augurabile, a scapito della riconversione del nostro sistema economico? La Cgil, certo, non può rinunciare alla tutela del lavoro esistente anche in una fase di impetuosa transizione. Ma una scelta di classe lungimirante, che miri all’allargamento e all’innovazione della base produttiva, è chiamata a fare i conti con le rendite di posizione dei ceti imprenditoriali che nella Meloni e in Salvini trovano solerti protettori delle loro rendite di posizione.
Se Elly Schlein manterrà, senza annacquarlo, il suo ecologismo sociale intransigente, offrirà una sponda politica alla transizione cui la stessa Cgil è chiamata. La fotografia di Firenze, Landini in corteo al fianco di Elly Schlein e Giuseppe Conte, lascia presagire una svolta che va oltre la comune sensibilità antifascista. Di che svolta si tratti, verrà a spiegarlo una terza donna che prenderà la parola al congresso di Rimini: Yolanda Diaz, ministra del Lavoro e dell’Economia Sociale del governo socialista spagnolo. È infatti sulle politiche del lavoro, e in particolare nel contrasto attivo alla precarietà e alla scandalosa compressione dei salari, che emerge una plateale distanza dalle scelte fin qui compiute da Giorgia Meloni. Che strizza l’occhio agli evasori, si guarda bene dal tassare i ricchi, scarica sui meno abbienti i vincoli dell’austerità (vedi il brutale ridimensionamento del Reddito di cittadinanza) e perpetua l’ideologia di destra secondo cui il lavoro è solo un accessorio dell’impresa.
Landini dovrà pur chiedersi come mai l’Italia, Paese fanalino di coda nelle retribuzioni ma non certo nei profitti, dia l’impressione di restare un’oasi di pace sociale rispetto ai conflitti che infiammano Regno Unito, Francia e Germania. Dovrà sforzarsi di instaurare un rapporto col sindacalismo di base tenuto ai margini dai confederali ma attivo nei settori di maggior sfruttamento della manodopera. Per cambiare ci vuole coraggio, ma il momento è venuto.