La plastica è onnipresente e invasiva, tanto da essere stata definita dagli studiosi come segno distintivo dell’Antropocene. A partire dagli anni Cinquanta, la produzione di materie plastiche è aumentata senza sosta e, secondo stime accreditate, la domanda potrebbe raddoppiare entro il 2050. Cifre preoccupanti, se pensiamo che già finisce nelle nostre acque ogni minuto l’equivalente di un camion di rifiuti, di cui l’80% sono rifiuti di plastica.
I governi di tutto il mondo sono al lavoro, anche se mancano soluzioni concrete e i mass media stanno dando sempre più spazio a inchieste sulle conseguenze disastrose della plastica che, dal mare e dalla terra, arriva a minacciare gli animali che li abitano e la stessa vita umana.
Anche se non conosciamo ancora con certezza gli effetti che la plastica può avere sull’uomo, sappiamo invece bene cosa può causare agli animali che la scambiano inconsapevolmente per cibo. Uno studio recente, pubblicato sulle pagine del Journal of Hazardous Materials – ha scoperto infatti per la prima volta la “plasticosi”: una malattia che colpisce gli uccelli ed è causata direttamente dalla plastica.
Un team di ricercatori internazionali, guidato dal Museo di Storia Naturale di Londra, ha analizzato il tessuto dello stomaco di un campione di 21 esemplari deceduti di berta piedicarnicini (Ardenna carneipeps), un grande uccello marino che vive sull’Isola di Lord Howe, in Australia. Nonostante l’isola si trovi a più di 600 chilometri dalle coste australiane, questi animali sono ritenuti tra i più contaminati al mondo dalla plastica.
I risultati hanno dimostrato che ogni uccello aveva ingerito in media dai 32 ai 53 pezzi di oggetti di plastica, con una massa media di 3-5grammi circa, una quantità in crescita rispetto ai dati dello scorso anno. Studiando le berte, è stata notata una vera e propria fibrosi intestinale, che avviene in risposta allo stato di infiammazione prodotto dalla plastica. Inoltre, in quasi tutti i campioni valutati è stata notata una chiara ed evidente formazione di cicatrici nello stomaco degli uccelli e un’alterazione delle ghiandole tubolari (quelle che secernono i composti digestivi) e delle loro funzionalità.
Quando la plastica viene ingerita, queste ghiandole, che sono cruciali per la digestione e l’assorbimento di proteine e nutrienti, perdono gradualmente struttura e funzionalità, causando un’atrofizzazione e un’acidificazione dello stomaco degli uccelli, che li rende più vulnerabili a infezioni e parassiti e quindi più deboli.
A cosa dobbiamo assistere ancora prima di intervenire per fermare tutto questo? La plastica è ovunque e produce effetti permanenti. L’utilizzo smodato di plastica usa e getta in ogni ambito della nostra vita quotidiana, oltre a essere inutile, rappresenta una delle emergenze di inquinamento ambientale più gravi dei nostri tempi. Inoltre, considerando che la produzione di plastica contribuisce attualmente al 4,5% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra, è fondamentale invertire la tendenza in un momento storico in cui la comunità scientifica ci chiede di dimezzare le emissioni entro il 2030 per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C.
Attualmente, uno degli elementi che contribuiscono ad aggravare notevolmente l’inquinamento ambientale sono gli imballaggi in plastica monouso: ogni cittadino europeo genera quasi 180 kg di rifiuti da imballaggio all’anno, più o meno mezzo chilo al giorno. Per questo, Marevivo, insieme a tutto il mondo del mare, ha lanciato l’ennesimo appello al governo per sollecitare l’emanazione dei decreti attuativi della Legge Salvamare, che dopo 9 mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è ancora ferma e inattuabile.
Nel frattempo enormi quantità di plastica finiscono quotidianamente in mare, creando danni permanenti all’ambiente e all’uomo. Ricerche scientifiche dimostrano che la plastica, sotto forma di microplastiche, è arrivata nel corpo umano: è presente nell’aria che respiriamo e nei cibi che assumiamo, essendo entrata nella catena alimentare. Antonio Ragusa, Direttore di Ginecologia e Ostetricia del Fatebenefratelli, in uno studio guidato in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche, ha riscontrato la presenza di frammenti di microplastiche nella placenta sia materna che fetale. I rischi sono seri: potrebbe alterare l’equilibrio nelle risposte che il sistema immunitario del bambino adotta nei confronti dell’ambiente esterno, modificando i delicati fenomeni epigenetici.
Non solo. Margherita Ferrante, Responsabile del Laboratorio di Igiene Ambientale e degli Alimenti presso l’Università degli Studi di Catania, in uno studio ha evidenziato nello sviluppo delle larve di pesci d’acqua dolce gravi deformità a livello della colonna e della coda, nonché una compromessa integrità della struttura visiva e delle funzionalità degli occhi.
La plastica è nel sangue umano e negli occhi dei pesci che diventano ciechi: ma a non vedere siamo soprattutto noi.