L’amore tossico non si fabbrica da solo o a causa di ripetuti incontri cattivi. I cattivi incontri arrivano sempre prima.
La psicanalista Laura Pigozzi, nel suo saggio che si chiama appunto “Amori tossici” (edito da Rizzoli, pagg. 240, € 18), parla di invasioni nei confini delle relazioni che viviamo in famiglia e fuori. Parla di mariti, amanti, ma anche amici, colleghi, superiori e soprattutto madri che in nome dell’amore assoluto impediscono il necessario e vitale processo di separazione dei figli. Parla di ghosting, serial lover e gaslighter. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo uno stralcio tratto dal primo capitolo.
L’amore tossico scavalca i confini, li disintegra sostenendo che fondersi sia il vero amore. Al contrario, amare smisuratamente l’altro equivale a odiarlo, così come odiare sconfinatamente l’altro cela un amore passato, infelice, occultato a volte anche a se stessi. L’amore tossico si modula sull’appropriazione psicofisica del partner, si nutre della sua vitalità, vive a spese dell’altro, che invece muore. Ma dove nasce e dove s’impara questo tipo di amore asfissiante e letale? È una delle questioni che percorreranno il testo. La relazione dominante-dominato inizia all’alba dell’uomo e, in quel tempo, serve a mantenerlo in vita. Poi piano piano il neonato cresce e la relazione di dipendenza con la madre, se tutto va bene, si relativizza; se ciò non accade, per una via o per l’altra, egli si ritrova implicato, nel corso della vita, in rapporti marchiati dall’assoluto.
E l’amore ideale lo è sempre. Una delle più temibili e oscure forme d’odio è quella che comincia con l’esaltazione dell’altro: i fan si trasformano prima o poi in persecutori. E, quando accade il rovesciamento, la vittima non pensa mai al fatto che tutto era già cominciato sotto quella sottile forma d’odio chiamata Idealizzazione. La donna è stata spesso idealizzata: un modo raffinato e nascosto di tenerla a bada, di controllarla. È infatti l’idealizzazione dell’amore ciò che lega l’altro come una catena: un amore specialissimo che si crede fuori dall’ordinario – “gli altri non possono capire” –, che soffoca i figli nelle mani possessive dei genitori e l’amata o l’amato in quelle dell’amante. La supposta eccezionalità della relazione copre l’abuso del dominatore. Idealizzare una donna equivale a odiarla, è toglierle l’umanità: è amarne l’immaginetta, la figurina, è innalzarla su un altare per meglio buttarla giù. La femme fatale è un’invenzione maschile, un universale in parata a cui il narcisismo femminile ha prestato il corpo. La donna idealizzata è quella che, inconsciamente, si vuole morta semplicemente perché deve combaciare con una figura che è altro da lei, pretendendo che si lasci proiettare su uno schermo non suo. È tra le varianti più subdole di disconoscimento che si possano subire.
Il caso di una giovane donna che ha incontrato un idealizzatore perverso (l’idealizzazione è una forma di perversione) ci aiuterà a spiegare meglio questa forma d’odio così poco identificabile come tale, che induce le vittime, quando vengono abbandonate, a credersi colpevoli di “non essere abbastanza” per l’altro, di averlo deluso. Pensano di essere loro fatte al contrario – come mostra l’immagine grafica in copertina –, senza sapere che è la struttura della relazione a essere capovolta, sottosopra: un legame che sembra amore, ma veicola odio. Se è già impossibile raggiungere l’ideale di sé, figuriamoci quello di un altro. Veniamo dunque alla storia. Il giovane aveva passato gli anni dell’adolescenza ad ammirare la ragazza, che era del suo paese, guardandola passare dalla finestra, ma senza mai parlarle. Quando si recava a casa di un’amica comune, ne osservava rapito la foto esposta sulla mensola del camino. Un giorno va a cercarla, con l’amica comune, fino alla città straniera dove lei vive e lavora. La colma di attenzioni e si fidanzano. Sembra una favola: la più bella fidanzata che lui abbia mai avuto, il fidanzato più premuroso di sempre. Inizia la relazione e lui, apparendo più innamorato che mai, le chiede di tornare per sempre in Italia. Lei accetta, credendo al suo amore. Ma, poco dopo il trasferimento, lui sparisce secondo il copione d’odio tipico del ghosting, vale a dire quell’assenza di parole che rende folli e che va per la maggiore nelle relazioni contemporanee, a cui abbiamo già accennato e a cui dedicheremo un intero paragrafo. Lei cerca di vederlo, insiste, lui si rifiuta offrendole solo il beneficio di una telefonata in cui le dice: “Credevo che fossi la donna della mia vita, ma non lo sei”. Nel passaggio dall’immaginetta idealizzata alle negoziazioni richieste dalla realtà, il giovane non ha tenuto. Effettivamente non era la donna della sua vita, era solo il suo ideale morto di donna, quello senza ombre. L’idealizzazione è la più raffinata forma d’odio che una donna possa subire.
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