Perché da noi non succede? La domanda in fondo è questa. E in tanti se la fanno mentre in tv e sui telefonini scorrono le immagini della Francia che scende in piazza. Giovani, vecchi, operai, borghesi, studenti, agricoltori tutti insieme per protestare contro l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni deciso da Emmanuel Macron. I video raccontano cassonetti dati alle fiamme, scontri con la polizia, arresti, rabbia, slogan e speranza. Raccontano un Paese che pare distante migliaia di chilometri dal nostro. Qui, quando nel 2011 l’età pensionabile è stata portata a 67 anni, tutto si è risolto con uno sciopero di 4 ore. Da loro invece il mondo oggi sta venendo giù come era già accaduto tante altre volte quando a Parigi un qualsiasi governo aveva proposto riforme che secondo i francesi intaccavano i diritti. Eppure anche in Italia la situazione dei lavoratori è peggiorata: i salari, caso unico in Europa, sono in media scesi rispetto al 1990; la flessibilità si è trasformata in precarietà; i giovani laureati devono migrare. L’arretramento è costante, ma di fatto solo in pochi fiatano. Perché?
Il segreto sta nella lentezza. I cittadini italiani ormai da trent’anni vedono erodere i loro diritti, ma sempre a poco a poco. Un passettino dopo l’altro. E così, tranne che in rare eccezioni, non si sono mai ben resi conto di cosa accadeva. Il peggioramento è vero c’era, ma in molti pensavano che fosse temporaneo o che in fondo fosse poca cosa e soprattutto che a quel peggioramento non ne sarebbe seguito un altro. Anche perché le televisioni, i giornali, gli opinionisti, quasi tutti i partiti politici continuavano a ripetere che quello che stava succedendo era per il bene di tutti. Perché bisognava entrare nell’euro, perché bisognava essere competitivi, perché c’è la globalizzazione, perché non si può lasciare questo debito ai nostri figli (nel frattempo ormai quasi nonni).
Il metodo della concertazione inaugurato nel 1993 dal governo di Carlo Azeglio Ciampi, utile per uscire dalla situazione economica in cui l’Italia si trovava, è presto degenerato in una sorta di consociativismo tra la politica e i rappresentanti delle parti sociali, molti dei quali sono poi diventati parlamentari. Così tutti gli angoli sono stati smussati. Il conflitto tra classi, indispensabile perché il capitalismo possa non diventare selvaggio e puntare esclusivamente al profitto, di fatto è stata azzerato. Ogni riforma del lavoro veniva presentata come migliorativa e risolutiva e non era mai vero. A sostenerlo però erano anche gli intellettuali di una parte della sinistra e sempre lo dicevano le tv. Con effetti paradossali: se l’articolo 18 lo vuole cambiare Berlusconi non va bene. Se lo fa Renzi, vabbè riflettiamoci.
Ma non basta. Perché in discussione è stato messo anche il diritto-dovere alla protesta. In Francia i pronipoti della rivoluzione pensano che scendere in piazza sia uno dei cardini della democrazia. Da noi al primo cassonetto della immondizia bruciato tutti rievocano gli anni di piombo. L’epoca del terrorismo ci ha così profondamente segnati da non permetterci più di fare le dovute distinzioni. Infine c’è il senso d’impotenza: la sensazione che le proteste in Italia servano a poco o niente. In Francia nel 1995 gli scioperi bloccarono una prima riforma delle pensioni; nel 2006 le manifestazioni degli studenti sbarrano la strada ai nuovi contratti per il primo lavoro. Da noi, invece, come diceva Jaques Prévert, quando gli spazzini fanno sciopero, gli sporcaccioni s’indignano.