Non siamo mica gli americani, noi. Loro avevano avuto la sfrontata sincerità di chiamarlo “esperimento”, ammettendo implicitamente che qualcuno rischiava di rimetterci l’osso del collo; noi, invece, la chiamiamo “rivoluzione”, ma basterebbe Wikipedia per sapere come può finire. Se volete togliervi la curiosità, cercate “Kansas Tax Experiment”: anno 2012, il governatore repubblicano decide di tagliare le tasse linearmente, sia sui redditi individuali sia sulle aziende, per “dare una botta di adrenalina all’economia” (già sentita?). Azzera il fisco per molte imprese, porta le aliquote a 2, abbassa quella sui redditi maggiori del 25%. Risultato: scuole chiuse, assistenza sanitaria ridotta, nuove infrastrutture bloccate, buco di bilancio da quasi 1 miliardo di dollari e crescita economica e occupazionale stagnante, tra le più basse degli Usa. Cinque anni dopo, la marcia indietro dei Repubblicani: l’esperimento è fallito, i tagli sono annullati, tocca investire sulla spesa pubblica.
Non siamo mica gli americani, noi. Ma quando Giorgia Meloni e il suo governo annunciano la nuova sacra triade della riforma fiscale – “Abbassiamo le tasse, aumentiamo la crescita e l’equità, favoriamo occupazione e investimenti” – sarebbe interessante sapere se abbiano in mano uno straccio di stima o prova. Perché gli atti di fede sono facoltativi, ma il dato di realtà è necessario. E dice tutt’altro: mediamente il 20% dell’Irpef (imposta sul reddito) va a finanziare la sanità, il 21% la previdenza, l’11% l’istruzione e l’8,9% la difesa, l’ordine pubblico e la sicurezza. Cosa succederà quando mancheranno tra i 6 e i 10 miliardi di gettito? E i 25 miliardi circa di Irap – imposta sulle imprese, di cui è prevista la cancellazione – che sostengono il 20% della spesa sanitaria? Privatizzeranno (definitivamente) il welfare? E chi beneficerà allora del taglio delle tasse?
Oltre la propaganda, all’orizzonte si intravedono: minor spesa pubblica, poca crescita, maggiori disuguaglianze. Di queste ultime si fa garante la promessa della flat tax per chiunque, che tradotto suona così: non importa che tu fatichi a pagare l’affitto e magari ti abbiano tolto un sussidio vitale perché allo Stato verserai la stessa percentuale di chi ha tutto. E, prima di allora, probabilmente in proporzione pagherai più degli altri, perché il taglio delle aliquote, proprio come in Kansas, sposta il carico sulla classe media e povera. In barba alla Costituzione. È all’articolo 53 il principio secondo cui “tutti sono chiamati a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, ma già oggi il meccanismo è inceppato. Uno studio degli economisti Guzzardi, Palagi, Roventini e Santoro dimostra come, a furia di favori fiscali, la reale progressività del sistema sia debolissima ed è addirittura del tutto assente per il 5% delle persone più ricche. Queste, cioè, pagano meno delle più povere: il 36%, contro il 40. Per ribaltare questa stortura macroscopica, e restituire alle imposte la loro irrinunciabile funzione redistributiva, servirebbe ben altra “riforma epocale” del fisco (copyright Meloni): servirebbero tasse per la giustizia ambientale, sul patrimonio e di successione, per spalmare un po’ del privilegio di chi nasce nella ricchezza su chi ha (almeno) il diritto inalienabile di andare a scuola e di curarsi. Invece, in Italia, figlie e figli di Paperoni continueranno a versare briciole sulla loro fortuna, il 4% solo per eredità superiori a 1 milione di euro, mentre in Francia l’imposizione arriva al 45% e la media dei Paesi Ocse è il 15%. Di questo doveva occuparsi “una rivoluzione attesa da 50 anni”, che volesse veramente rifondare il patto sociale di convivenza, e insieme spingere l’economia. Ma ad attuare la Costituzione più bella del mondo questo governo non ci pensa proprio.