Per noi che lavoriamo nel settore forestale, la denuncia della Corte dei Conti secondo cui il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica avrebbe equiparato la messa a dimora di arbusti finanziati dai fondi del PNRR con l’interramento di ghiande e semi non è una novità. Già l’anno scorso i due problemi che i giornali hanno segnalato in questi giorni, ovvero il fatto che si siano conteggiati i semi al posto di piantine e il fatto che a Milano non c’è spazio per mettere a dimora piante, non sono stati una sorpresa. Tutto nasce da come è stato scritto inizialmente il bando della forestazione urbana con i fondi del PNRR, bando fatto dall’allora Mite (oggi Mase), e scritto con una serie di accorgimenti che lo rendevano di difficile applicazione.
Anzitutto, il numero di piantine da piantare e il breve tempo che è stato concesso implicavano che queste piantine avrebbero dovuto essere prese da qualche parte, ovvero dai vivai, che però avrebbero dovuto produrle. Al momento in cui questo bando è stato scritto, così come adesso, si sapeva benissimo che la produzione dei vivai non sarebbe stata sufficiente a garantire quei numeri nel brevissimo tempo prescritto. Si sarebbero dovute introdurre misure strutturali per tempo, come ad esempio, appunto un aumento della produzione vivaistica, il coinvolgimento di vivai privati etc.
Invece, non si è fatto nulla, per cui già l’anno scorso il ministero dell’Ambiente, consigliato dai Carabinieri Forestali, ha ammesso che non si potevano mettere a dimora piantine perché non si potevano comprare da nessuna parte, tanto meno (per fortuna) farle arrivare dalla Spagna o dall’Olanda. Allora si è deciso di prepararle, piantando dei semi in vivaio e facendo crescere queste piantine per uno, due o tre anni, a seconda della specie e poi trapiantarle. Il tutto senza costi extra, nel senso che con i soldi per i semi le città erano tenute anche a piantare, senza ulteriori fondi. Ma il problema è che l’Europa queste piante voleva subito, perché una tranche di 1.650.000 andavano fatte entro un anno. Ora bisognerà vedere se la Commissione europea accetterà questa soluzione, d’altronde non c’era alternativa, tranne quella, ovviamente, di aumentare i tempi del bando.
Il secondo aspetto, quello relativo allo spazio in città, è sempre un problema del bando, in cui è stato scritto che per fare richiesta di finanziamento, le città metropolitane avrebbero dovuto trovare aree con una certa estensione minima, che per Milano era tre ettari. Purtroppo, a Milano aree pubbliche di questa estensione, dove piantare, non ci sono, visto che la maggior parte sono di proprietà privata. Ma questo, appunto, si sapeva già un anno fa tanto che Città Metropolitana – sapendo di non poter accedere a questi finanziamenti – ha chiesto una modifica al bando, che probabilmente verrà fatta.
In sintesi, si è trattato di un bando per certi versi utile, ma scritto in modo frettoloso e disconnesso dalla realtà. Inoltre, si sono trascurate anche tutte le città di media e piccola grandezza che sono quelle più in difficoltà del verde, perché spesso non hanno le competenze. Questo è un aspetto di cui non si è tanto parlato.
Un’altra cosa poi su cui non c’è stato un investimento sufficiente è la formazione dei tecnici. Nessuno o quasi sa quali piante vanno piantate e quali sopravvivono, specie in tempi di siccità, è tutto da sperimentare. Il problema del cambiamento climatico è la sua velocità, e tanti tecnici che lavorano nei comuni non sono formati ad avere a che fare con queste sfide.
Vorrei segnalare infine un altro problema. Nel bando c’è il requisito di piantare mille piante ad ettaro. Ma questo equivale alla densità di un bosco molto fitto, in un parco o viale non si arriva mai a mille piante a ettaro. Il fatto è che se togli anche dell’asfalto – una cosa necessaria, se non si deimpermeabilizzano alcune zone, se non si tolgono marciapiedi e parcheggi – non si arriva a questa densità, quindi a quel punto occorrono posti già con terreni permeabili di proprietà pubblica. Anche questo era troppo stringente come requisito, avremmo dovuto avere più tempo per comprare le aree, capire dove farli. Un insieme di cose, insomma, che ha creato un vero corto circuito.