Ho fatto un sogno: una rivolta “alla francese” per salvare Milano. Piazze piene come quelle di Parigi, o di Tel Aviv, di ragazzi e ragazze, giovani e adulti, donne e uomini, in centro e nelle periferie, per chiedere di buttare nel Naviglio il “Modello Milano” e ripartire con una politica che restituisca ai cittadini la loro città, ora presa in ostaggio dai padroni dell’immobiliare.
Per anni ha prevalso la retorica del “place to be”, della metropoli europea attrattiva e sexy, paradiso della crescita, dello sviluppo verticale e perfino green. Ora i nodi vengono al pettine. La narrazione trionfale della “Milano da mangiare” balbetta, non riesce a fermare il dibattito sull’“invenzione di Milano” e sulla città cara, crudele, disuguale e inquinatissima. Anche i commentatori fin qui più melensamente agiografici ora annusano l’aria e cominciano ad avanzare qualche cauta critica al loro amato sindaco.
Impercettibili segni di crisi attraversano anche il mercato immobiliare, che pareva destinato a una crescita continua e inarrestabile: con l’aumento di inflazione e costo del denaro, crescono anche gli oneri finanziari, mentre i costi di costruzione sono già aumentati del 30%. È dunque tempo di riflettere. E di cambiare rotta. La “londrizzazione” della città è stata perseguita nei decenni scorsi attraverso il via libera concesso ai fondi immobiliari e agli “sviluppatori”, lasciati liberi di occupare suolo, costruire grandi volumetrie, decidere la regia delle grandi operazioni immobiliari. Il sindaco, la giunta, il Consiglio comunale sono stati a guardare: lanciata la parola d’ordine dell’“attrattività” – attirare capitali da tutto il mondo – hanno rinunciato alla loro funzione regolatrice e pianificatrice.
In perfetta continuità, i sindaci di centrodestra e di centrosinistra hanno lasciato fare alla mano (visibilissima) del mercato. Hanno concesso ai privati una cascata di diritti d’edificazione, mantenendo gli oneri d’urbanizzazione più bassi d’Europa. E i capitali sono arrivati: dall’Italia, dai fondi americani, dai fondi sovrani degli sceicchi. Milano è diventata la Disneyland dell’immobiliare. E a farne le spese ora sono i milanesi: i prezzi delle case e degli affitti sono arrivati alle stelle, fasce consistenti del ceto medio sono strozzate dai costi dell’abitare ed espulse dalla città. Privati ormai perfino i marciapiedi, occupati dai dehor della foodification. Intanto l’aria è diventata irrespirabile; le disuguaglianze continuano a crescere; aumentano i reati di strada.
Ma attenzione: costi eccessivi dell’abitare, espulsione dalla città, aumento delle disuguaglianze e aria irrespirabile non sono i “lati negativi” del meraviglioso “Modello Milano”: ne sono il frutto, la conseguenza necessaria. Il sindaco e i suoi assessori, impegnati ad “attrarre”, hanno dimenticato di alzare gli oneri d’urbanizzazione per restituire alla città almeno una parte dell’immenso valore immobiliare prodotto in questi anni, hanno dimenticato di imporre agli “sviluppatori” quote significative di edilizia popolare e sociale, hanno dimenticato di gestire le case popolari, lasciate occupate, o sfitte, o cadenti. E ora offrono ai privati anche la gestione dell’edilizia pubblica.
Milano intanto ha perso 12 milioni del Pnrr perché non ha più grandi aree su cui piantare alberi, ma solo aiuole e giardini condominiali per valorizzare i nuovi immobili. Eppure le aree vaste ci sarebbero, segnaliamo alla spaesata e disinformata assessora del verde (si fa per dire): gli scali Fs (1,2 milioni di metri quadri), l’area Expo (1,1 milioni), Porto di Mare (1,25 milioni), Ex gasometro (800 mila), Piazza d’Armi (416 mila), Sesto (1,4 milioni)…
Ma mica possono essere trasformate in boschi, nella città del sindaco green: sono state concesse ai privati per tirar su grattacieli e centri commerciali. I milanesi nel mio sogno se ne accorgevano e scendevano in piazza per giorni, per avere case a buon mercato e aria più pulita: ma era solo un sogno.