“L’importanza di una persona non è essere l’uomo più ricco del mondo, l’importante è lasciare la prole, perché il proprio Dna cammina, continua a camminare”. Il passaggio del “testimone” da padre a figlio è sintetizzato così nelle parole del boss mafioso di Brancaccio, Giuseppe Graviano, condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio e per le bombe del 1993, e detenuto al 41bis dal gennaio 1994. E proprio “Madrenatura”, come è chiamato Graviano, che riuscì nel 1997 a concepire un figlio in carcere (sia lui sia suo fratello, Filippo, con le rispettive mogli). “Vedi che fare il figlio nel carcere, questo per me è stato un miracolo”, aveva detto proprio lui anni dopo, intercettato mentre lo raccontava in carcere. La storia è nota, anche se il boss, nei vari processi, ha sempre detto e non detto, specie sulle possibili coperture che permisero “il miracolo” per lui e il fratello. Ma è la prima volta in cui vediamo Graviano parlare dei dettagli di quel giorno con il suo compagno di ora d’aria, il camorrista Umberto Adinolfi (lo stesso a cui ha raccontato, tra tante cose, della sua latitanza a Milano e della “copertura favolosa” di cui lì godeva). È Report – che stasera torna su Rai3 con il suo nuovo ciclo di inchieste – ad aver scovato il video della confessione di Graviano. Proprio lui che aveva assicurato che non avrebbe raccontato mai a nessuno “come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto”.
Nella puntata, a firma Giorgio Mottola, viene così mostrato il colloquio (aprile 2016) registrato dalle telecamere di sorveglianza del carcere, tra Graviano e Adinolfi. “Vuoi sapere il mio stato d’animo. Ti dico, che sono più ansioso, è stato prima di farlo. No prima di nascere il bambino, prima di incontrarmi con mia moglie, i giorni in cui sapevo che doveva avvenire la situazione – dice Graviano, passeggiando avanti e indietro senza sosta – Umbè, tremavo tutto. Cose da pazzi. Tremavo!”. “Il concepimento dei figli dei Graviano è un capitolo ancora aperto, che potrebbe aprire il varco a conoscenze ancora più importanti degli equilibri tra mafia e Stato in quel periodo”, spiega alla trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore alla Dna.
L’episodio del concepimento dei Graviano, ancora una volta, riporta l’attenzione su come, nonostante le durissime restrizioni previste dal 41bis, i boss siano riusciti ad approfittare di ogni falla e piccolo spiraglio del regime carcerario da sempre più avversato dai mafiosi, persino quando erano rinchiusi a Pianosa o all’Asinara. Per aggirare l’isolamento, nel corso degli anni, c’è chi ha usato come espediente le questioni di salute, chi invece la richiesta di fare l’università. Con annessa richiesta di trasferimento, perché – come spiega a Report il pm Sebastiano Ardita, già direttore generale del dipartimento detenuti del Dap tra 2002-2011 – “mantenevano delle iscrizioni in sedi universitarie molto distanti da quelle in cui si trovava il carcere, fino aduemila chilometri di distanza”.
Ecco così l’elenco dei “mafiosi accademici”, partendo dal killer Pietro Aglieri iscritto a lettere con una media di 30 e lode, passando per Filippo Graviano laureato con 110 e lode in Economia, al fratello Giuseppe iscritto in Scienze con voti “eccellenti”. Giovanni Riina, figlio del capo dei capi, è immatricolato in giurisprudenza dal 2015, ma ha dato solo l’esame di Diritto costituzionale con 22. Mario Capizzi, condannato per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, è laureato in Agraria con 104, mentre il camorrista Ferdinando Cesarano ne una in Sociologia. “Da una verifica fatta, ci siamo accorti che nessun detenuto era stato mai rimandato in una materia all’università”, aggiunge Ardita.
Report si sofferma anche su un’altra “anomalia”, sempre a proposito di possibili collegamenti con l’esterno, per i boss detenuti al 41bis. E riguarda gli avvocati difensori. Tra il 2007 e 2008, come racconta lo stesso Ardita, un singolo avvocato arrivò a difendere contemporaneamente 34 detenuti al 41bis. Un dato che va ggiornato. Dal censimento del 2016 del Dap, che Report mostra, risulta che “il record di clienti” sarebbe dell’avvocata aquilana Piera Farina: “109 assistiti al 41 bis”, tra cui gli ‘ndranghetisti Giuseppe Mancuso e Nino Imerti, i mafiosi Piddu Madonia, Giuseppe Graviano e Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro. L’avvocata Farina nel 2016 avrebbe incontrato “70 assistiti su 109 totali, tra il carcere dell’Aquila, Ascoli Piceno, Milano, Parma e Sassari”. “Mai e poi mai a me è stato chiesto di fare una cosa illecita – spiega l’avvocata alle telecamere di Rai3 – Mi dicono salutami tizio, io dico: non saluto proprio nessuno”. Ma di regole che impongano agli avvocati un numero massimo di detenuti al 41bis non ce ne sono, e quindi la questione resta tuttora aperta.