Senza soluzione di continuità, l’Italia nel XXI secolo ha perso peso a livello economico e dunque politico. E non solo nel mondo ma persino nell’area dell’euro. Nel quadriennio dallo shock Covid questa tendenza si conferma: mentre il mondo crescerà dell’8% e gli USA del 5,8%, l’area dell’euro solo il 3,1% e l’Italia … il 2,1%. Il risultato è tanto più sorprendente se si considera che nel periodo in questione è stato attivato per il nostro Paese il massiccio aiuto del Pnrr, a cui così tante aspettative di ripresa erano state associate. Com’è possibile? Solo a chi non ha occhi per vedere potrebbero sfuggire le ragioni e le responsabilità di un tale drammatico stato delle cose da più di un ventennio, che col Piano di ripresa non fanno altro che acquisire una luce ancora più chiara.
È infatti da un lato verità incontrovertibile che l’Italia abbia un rapporto debito su Pil alto e in crescita dal 2010 per colpa delle politiche europee di austerità in tempi di crisi, che hanno avuto l’effetto nefasto aggiuntivo di aver depauperato la Pubblica amministrazione della capacità di fornire servizi al Paese (non a caso abbiamo oggi l’età media del personale pubblico più alta d’Europa e la più bassa numerosità di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione). Lo stesso Pnrr, peraltro, ha rafforzato tutto ciò col famigerato articolo 10 che condiziona lo stanziamento dei fondi europei a una continuazione dell’austerità, impedendo di fatto, tra le altre cose, che si possano effettuare assunzioni a tempo indeterminato nel settore pubblico – le cui piante organiche ormai risultano ampiamente scarseggianti di personale – e che si possano in definitiva attuare proficuamente gli investimenti del Piano di ripresa stesso.
Al contempo è vero tuttavia che da oltre vent’anni l’Italia è più che corresponsabile di questa disastrosa performance economica. Il poco coraggio che ha distinto tutti i governi che dall’inizio dell’euro potevano mettere mano alla riforma della qualità della spesa pubblica è infatti ormai assodato. Nessuna spending review (che non significa certo austerità e tagli, ma riqualificazione della spesa) è passata agli atti in questi due decenni e mezzo, un fatto che ha, a pensarci, dell’incredibile.
Lo vediamo anche oggi con l’approvazione di un Codice degli Appalti che, malgrado i miglioramenti che potrà apportare su singoli aspetti, fallirà a livello di sistema Paese. E questo non perché la nostra P. A. è diffusamente corrotta, ma perché sono invece massicci gli sprechi dovuti ad incompetenza e nulla è previsto (né nel Codice né nelle riforme che lo accompagnano) per riqualificare, riorganizzare, rimotivare il personale addetto alle gare e alla loro progettazione per il tramite di remunerazioni più competitive e carriere all’altezza di quelle offerte, nello stesso campo, dal settore privato. Così una grande sfida come il Pnrr, come avevamo a suo tempo previsto e raccontato all’interno del nostro osservatorio OReP esattamente un anno fa, non avrebbe mai potuto esplicare il suo potenziale in presenza di, come ha affermato di recente la stessa Corte dei Conti, “modalità di reclutamento del personale dedicato al Pnrr con formule non stabili”, che “hanno fatto emergere non poche difficoltà, per le Amministrazioni, nel garantire la continuità operativa delle strutture che, al contrario, necessiterebbero di un quadro di risorse certo per tutto l’orizzonte temporale del Piano”.
La soluzione per evitare che alla fine, come suggeriscono voci autorevoli ed esperte, “solo un terzo del montante globale del Pnrr sarà onorato”, è una sola e richiede che Europa e Italia convergano su di essa: un ambizioso progetto di riqualificazione delle competenze del personale della Pubblica amministrazione dedicato a progettazione e appalti, con una centralizzazione intermedia (provinciale) delle commesse così da evitare gli svantaggi di tipologie estreme di governance (via da quella centralizzata che uccide le Pmi e da quella comunale troppo frammentata), con la strutturazione di percorsi di carriera attraenti così da motivare il personale a rientrare nei ranghi pubblici, e con controlli accurati e continui via disponibilità di dati e certezza delle ispezioni, per garantire la performance in termini di rispetto dei tempi e della qualità. Tali investimenti in capitale umano a tempo indeterminato, che si ripagheranno con la cancellazione di decine di miliardi di sprechi, dovranno essere autorizzati dall’Ue e non conteggiati ai fini della procedura del calcolo dei deficit eccessivi.
L’alternativa è lo status quo, che condanna Europa e Italia alla loro scomparsa politica in un mondo che, invece, avrebbe incredibilmente bisogno di loro.