A volte ritornano. Da un giorno all’altro è tutto uno strillo, un allarme, un ritardo. Come un fiume carsico riemerge dall’indifferenza il famigerato Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e allora ricordiamo che sì, ci sarebbe quell’ultima occasione di rilancio del Paese, come si è detto allo sfinimento, l’ultimo treno, l’ultima speranza. In parole povere: un sacco di soldi da spendere. Eppure nulla va come dovrebbe. A partire da una questione che minore proprio non è: siamo in ritardo nel far cosa, esattamente? Cos’è che stiamo costruendo? Quali sono i progetti che dovrebbero cambiare la faccia dell’Italia? E come si fa a verificarli?
Alzi la mano chi sa rispondere nel dettaglio, con la lista di interventi concreti, con una visione che vada oltre frasi generiche, benché importanti, in stile “crescita economica robusta, sostenibile e inclusiva”. C’è chi lo ha detto subito, e ha provato a ripeterlo, senza ricevere risposta: il peccato originario del Pnrr è l’essere stato concepito in maldestra solitudine, senza confronti con la cittadinanza, con gli enti e le istituzioni, che dovrebbero attuarlo o con le realtà che tocca. È un piano senz’anima, che risponde a interessi più che a un’idea. Altro che nuovo modello di sviluppo: il rilancio è affidato a molti interventi frammentati che potrebbero, nella migliore delle ipotesi, rendere un po’ più efficiente quello che già esiste. Esempio lampante e imbarazzante è la recente perplessità della Commissione europea su due opere da finanziare, gli stadi di Firenze e Venezia: ma davvero i fondi servivano a questo? E perché a Bruxelles ci han messo così tanto ad accorgersene? Forse che la messianica accondiscendenza con cui fu accolto il piano consegnato da Mario Draghi fosse un po’ eccessiva? Ora, questo dettaglio non trascurabile dell’opacità si sposta sullo stato di attuazione. Mentre il governo di Giorgia Meloni annuncia che “è matematico che alcuni progetti da qui al 2026 non possono essere realizzati”, cittadine e cittadini non hanno strumenti per monitorare la situazione. Ci sarebbe, certo, il portale Italia Domani, annunciato in pompa magna dall’esecutivo Draghi: provate a navigarlo per capire da voi che lì dentro non c’è alcuna notizia utile a capire. L’attuale governo, poi, non ha mai presentato la relazione sull’attuazione che doveva arrivare a dicembre, con la legge di Bilancio. Ne ha presentata una, invece, la Corte dei conti, un paio di settimane fa, e ha fatto sapere di aver dovuto chiedere informazioni ai singoli ministeri, perché la banca dati che dovrebbe servire allo scopo, e che doveva essere attiva entro la fine del 2021, ancora non lo è. In quel testo, in compenso, i magistrati contabili hanno segnalato non solo la mancanza di personale nella Pubblica amministrazione, indispensabile per realizzare il piano, ma soprattutto che quel personale non c’è perché sono previste assunzioni “non stabili”: per cambiare il Paese, insomma, si è scelto di aumentare la precarietà. Alla faccia della crescita stabile e inclusiva.
Sarà forse anche la mancanza di personale che impedisce al governo di rispondere alla richiesta di accesso alle informazioni (Foia) inviata da Openpolis, la fondazione che raccoglie dati di interesse pubblico per informare la cittadinanza sullo stato delle cose. E dire che, nell’approvare il piano, il Consiglio europeo affermava: “È fondamentale coinvolgere tutte le autorità locali e tutti i portatori di interessi, tra cui le parti sociali, durante l’intera esecuzione”. Il sospetto è che, a dispetto del piglio decisionista dei nuovi anni Venti, nemmeno Meloni e i suoi sappiano realmente qual è la situazione. E se in Consiglio dei ministri arriva l’ennesimo decreto per l’attuazione del Pnrr – senza che l’ultimo sia stato ancora convertito – qualcuno potrebbe mettersi in testa che sia solo per poter dire: eppur si muove.