I destini personali s’intrecciano per vie imperscrutabili dentro la grande storia. E oggi che si celebra l’ottantesimo anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia, il mio pensiero prende la forma di due volti cari, fra loro distanti, ma solo in apparenza: Carlo Orlandini e Marek Edelman.
Carlo Orlandini aveva solo 16 anni l’estate del 1943 quando, per puro caso, fu tra i primi italiani ad apprendere della definitiva liquidazione del più grande ghetto ebraico d’Europa. Il 25 luglio, saputo dell’arresto di Mussolini, se l’erano data a gambe i capisquadra del campeggio per l’addestramento degli avanguardisti a cui partecipava sulle rive del lago di Garda, a Bardolino. Rimasti soli, lui e i suoi compagni vennero raggiunti da un drappello di soldati tedeschi appartenenti a una divisione SS discesa dal Brennero, reduce dalla Polonia. Familiarizzarono. Complice qualche bicchiere di vino, durante il bivacco notturno un nazista iniziò a vantarsi del “tiro a segno” – disse proprio così – con cui in primavera a Varsavia le SS gareggiavano a centrare col mitra gli ebrei che si buttavano giù dai palazzi in fiamme. Carlo Orlandini non riuscì a prendere sonno. E la mattina dopo tornò da quel soldato: “La storia che ci hai raccontato ieri sera è esagerata, vero?”. “No, no, è andata proprio così. Quelle sono cose che, alle volte, è necessario fare”.
Tanti anni dopo, Carlo Orlandini me l’ha ripetuto con certezza: “Fu quello il momento in cui capii chi era il nemico che dovevo combattere”. A settembre lasciò scritta, senza preavviso, una lettera a sua madre, passò le linee e fece sua la scelta partigiana.
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Mi spiace di non averlo potuto raccontare a Marek Edelman, che ormai se n’era già andato: un ragazzino italiano di 16 anni aveva sentito il bisogno di ribellarsi perché gli erano giunte notizie di prima mano da Varsavia.
Marek, a 24 anni, non aveva certo scelto di trovarsi rinchiuso tra i muri di quel ghetto con altri 450 mila sventurati. Sulla Umschlagplatz aveva già assistito al trasporto forzato di 260 mila ebrei verso le camere a gas di Treblinka. Quando ormai anche il suo destino appariva segnato, decise insieme a poche centinaia di altri giovanissimi di dare vita allo ZOB (Organizzazione ebraica di combattimento), di cui divenne vicecomandante. Il 19 aprile 1943 scatenarono un inferno di fuoco che provocò numerose vittime fra i nazisti e li ricacciò fuori dal ghetto. Durò quasi un mese quella incredibile rivolta, domata nel sangue dai reparti del generale SS, Jürgen Stroop. “Gli uomini hanno sempre creduto che sparare è il massimo dell’eroismo. Allora abbiamo sparato”, usava dire Marek. E ancora: “Visto che l’umanità si è accordata che morire con le armi in pugno è più bello che senza, allora ci siamo sottomessi a questa convenzione”.
L’antieroe Marek Edelman è uno dei pochissimi sopravvissuti di quel manipolo di eroi. Riuscì miracolosamente a fuggire attraverso le fogne nella parte ariana della città poco tempo dopo che i tedeschi avevano espugnato il bunker di via Mila 18 in cui si tolse la vita Mordechai Anielevicz, il comandante della rivolta. Nel dopoguerra divenne cardiologo a Lodz. Era un piccolo uomo che non conosceva la paura. Da militante del Bund, il partito socialista ebraico, non prese in considerazione l’idea di emigrare in Israele. Si autodefiniva “guardiano delle tombe del mio popolo”. Ogni volta che in ospedale salvava una vita, sognava di aver sottratto una persona al convoglio in partenza per Treblinka.
Non smise mai più di essere un temerario combattente per la libertà. Ogni 19 aprile convocava una manifestazione alternativa, separata dalle celebrazioni del regime comunista che, nel 1981, ebbe l’impudenza di rinchiuderlo in carcere per via della sua adesione al movimento di Solidarnosc. Quando nel 1992 toccò a Sarajevo di essere assediata, guidò un convoglio umanitario in soccorso della sua popolazione, senza timore di evocare un paragone storico improprio. Era brusco, sarcastico. Fumava e beveva superalcolici fin dal mattino ma restava lucidissimo. Una volta che andai a intervistarlo a Lodz poco dopo che la destra polacca aveva vinto le elezioni definendo spregiativamente la memoria della Shoah “Olocausto s.p.a.”, e Radio Maria lo attaccava quotidianamente, gli chiesi il perché della sua ostinazione. Rispose: “Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia”.
Ecco a cosa servono gli anniversari come il 19 aprile polacco e il 25 aprile italiano, pur dall’esito fra loro così diverso: a metterci nei panni di chi fu chiamato a compiere una scelta e, fra le tante possibili, seppe fare quella giusta. Proprio come Carlo Orlandini e Marek Edelman.