“L’Italia deve avere una politica industriale, puntando sui settori dove può avere un vantaggio competitivo”, diceva fresca di insediamento e di grandi intenzioni Giorgia Meloni. Giustissimo, finalmente. Peccato che poi abbia deciso di rimuovere dal vertice di Enel l’ad che l’ha resa leader mondiale nelle rinnovabili e di scegliere come presidente uno stagionato esperto di combustibili fossili. Mentre confermava alla guida di Eni gli ideologi dell’Italia come grande hub del gas del Mediterraneo, esaltazione para-futurista di un reticolo di tubi e ciminiere.
Bisognerebbe allora chiarire cosa si intenda per politica industriale, mentre si fa la guerra alla mobilità elettrica, alla riqualificazione energetica degli edifici e persino agli attivisti che cercano di ricordare quello che il rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha scritto settimane fa: “L’accesso all’energia e alle tecnologie pulite migliora la salute; l’elettrificazione a basse emissioni di carbonio e i trasporti pubblici migliorano le opportunità di lavoro e garantiscono l’equità”. Non che il governo non sia informato di tutto, persino nei risvolti più tangibili e drammatici: l’Istat e l’osservatorio per la mortalità del ministero della Salute a luglio hanno rilevato un aumento dei decessi durante le ondate di calore del 20 e 29% rispetto ad anni precedenti, a riprova che la connessione tra salute, clima e modelli di sviluppo esiste, e va indirizzata. La novità è che gli strumenti per farlo abbondano e che non si può nemmeno piangere miseria.
Le coordinate fissate per guidare l’azione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – in gergo le “missioni” – dicono esplicitamente qual è la direzione da prendere: rivoluzione verde, inclusione e coesione, salute, mobilità sostenibile, ricerca, digitalizzazione e innovazione. E dicono anche che dalle connessioni tra queste azioni potrebbe – e dovrebbe – nascere la famigerata politica industriale nazionale, sfruttando contemporaneamente la progettualità del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) che ogni Stato europeo deve presentare per tradurre concretamente gli impegni di riduzione delle emissioni. Quello dell’Italia è fermo al 2019 e uno degli obiettivi principali che indicava allora – la riduzione della povertà energetica – è stato nel frattempo disatteso, con un peggioramento delle condizioni generali. Quanto ai soldi, sempiterna scusa per l’inazione, quando non per il negazionismo, non c’è solo la pioggia di miliardi del Pnrr, ma anche la mole di investimenti delle grandi aziende partecipate, che capitalizzano il 30% circa del valore della Borsa italiana (le sole Eni ed Enel, insieme, addirittura il 15%) e contribuiscono al 17% di tutta la spesa in ricerca e sviluppo del Paese. Toccherebbe allo Stato dare indicazioni su come mettere a frutto questa spesa, disegnando obiettivi strategici coordinati, in cui le attività delle imprese si rafforzino vicendevolmente, nell’ottica del cambiamento e della giustizia sociale, oltre che del profitto. Toccherebbe allo Stato, e a chi lo governa, anche dare indicazioni su come affrontare la “quarta rivoluzione industriale”, ossia quella della conoscenza, estratta attraverso i dati che la popolazione produce costantemente e inconsapevolmente, oppure che contribuisce a pagare finanziando la ricerca di cui poi si avvantaggiano i privati: gli studi per i vaccini Covid, si è meritoriamente scoperto di recente, son costati al pubblico 30 miliardi, contro i 16 messi dalle imprese private; i profitti, invece, sono finiti solo nelle casse di queste ultime. Il tracciato per definire una vera politica industriale, nei fatti, c’è già: basterebbe volerlo seguire. Ma si rischia di passare per moderati innovatori: vuoi mettere il gusto di criminalizzare chi lancia vernice lavabile per ricordarlo?