Il capo-economista della banca svizzera:no a nuovi aumenti dei tassi, i consumatori boicottino chi specula
Anche il Gotha dell’ortodossia finanziaria mondiale dei super-ricchi, la banca svizzera Ubs, ormai lo mette nero su bianco: a spingere in alto l’inflazione, che sta devastando il potere d’acquisto delle classi medie e basse a reddito fisso, non è più il rincaro dei beni durevoli né quello delle materie prime. Dall’inizio della pandemia siamo ormai […]
Anche il Gotha dell’ortodossia finanziaria mondiale dei super-ricchi, la banca svizzera Ubs, ormai lo mette nero su bianco: a spingere in alto l’inflazione, che sta devastando il potere d’acquisto delle classi medie e basse a reddito fisso, non è più il rincaro dei beni durevoli né quello delle materie prime. Dall’inizio della pandemia siamo ormai alla terza ondate di carovita, scrive Paul Donovan, capo economista, della società di gestione patrimoniale del gruppo elvetico: ora l’inflazione è guidata dall’espansione dei margini di profitto delle imprese. Il fenomeno, scrive l’analista, non è causato da uno squilibrio tra domanda e offerta ma dal fatto che “alcune aziende raccontano una storia che convince i clienti che gli aumenti dei prezzi sono ‘giusti’, quando in realtà nascondono l’espansione del margine di profitto”. Nonostante la questione sia stata più volte acclarata (anche dalla Banca centrale europea, come il Fatto ha rilevato già nei mesi scorsi), tuttavia i banchieri centrali vogliono insistere nel loro approccio di politica monetaria restrittiva. “Aumentare i tassi per ridurre la domanda finirà comunque per comprimere l’inflazione guidata dai margini di profitto”, scrive il capo economista di Ubs Gwm, ma “si tratta di un approccio rozzo e inutilmente distruttivo”. Donovan propone un’alternativa: la rivolta dei consumatori.
A marzo l’inflazione annua nell’eurozona è stata del 6,9%, rispetto al 7,4% dello stesso mese del 2022. In Italia nel mese scorso l’indice dei prezzi al consumo ha segnato +7,7% su base annua, dal +9,1% di febbraio. Per frenare il carovita, nel giro di pochi mesi la Bce ha aumentato per sei volte i tassi di interesse, portandoli a marzo al 3,50%. Secondo uno studio della Bce pubblicato il 30 marzo, nel quarto trimestre del 2022 i profitti sono aumentati del 9,4% annuo e hanno contribuito per oltre la metà alle pressioni sui prezzi in quel trimestre, mentre il costo del lavoro è aumentato solo del 4,7% e ha contribuito per meno della metà. “Ci si sarebbe aspettati che il rallentamento dell’economia avrebbe frenato i profitti. Ma di recente stiamo assistendo invece a un loro aumento. Molte aziende sembrano in grado di espandere i propri margini senza affrontare perdite significative di quote di mercato”, scrivono gli analisti della Bce. “Nell’area dell’euro i profitti sono aumentati più rapidamente del costo del lavoro da inizio 2022 e in alcuni settori già da fine 2019. L’effetto dei profitti sulle pressioni interne sui prezzi è eccezionale da una prospettiva storica: mentre in media dal 1999 al 2022 i profitti hanno contribuito per circa un terzo al deflatore del Pil (l’indice che permette di correggere il Pil in base all’inflazione del periodo, ndr), nel 2022 hanno contribuito per due terzi”, conclude l’istituto di Francoforte, che lascia presagire nuovi aumenti dei tassi di interesse.
L’alternativa a nuovi rialzi dei tassi però esiste, ma non piace affatto alle élite economiche: è il boicottaggio, scrive Donovan, cioé la possibilità – già sperimentata con risultati efficaci – di “convincere i consumatori a non accettare passivamente gli aumenti di prezzo. È un modo potenzialmente più rapido e meno distruttivo per invertire l’inflazione basata sui margini di profitto. I social media potrebbero avere un ruolo in questo processo”, spiega l’economista. Bisogna però che “i consumatori smettano di credere che i rincari siano giusti. Il consumatore sente storie preoccupanti sull’aumento dei prezzi agricoli, il cambiamento climatico e così via, e immagina che un rincaro del cibo sia ‘giusto’. Anni di attenta pubblicità da parte di produttori e rivenditori alimentari hanno convinto i consumatori che viviamo in una sorta di idillio rurale, dove il costo del cibo remunera principalmente i produttori. Al contrario, gli agricoltori ottengono solo una piccola parte del prezzo pagato dai consumatori perché la maggior parte del prezzo del cibo deriva dal costo del lavoro che non è aumentato così tanto. Questo significa che il venditore è in grado di aumentare i prezzi più velocemente dei costi, espandendo i propri margini”, come è avvenuto di recente, rileva l’economista, per la filiera del latte nel Regno Unito.
Ma “se i consumatori ritengono che l’aumento del prezzo non sia giusto, smetteranno di acquistare il prodotto ritardando l’acquisto o passando a fornitori alternativi. Se i consumatori sono arrabbiati, è probabile che i politici se ne accorgano”. Donovan riporta una battaglia vinta dai consumatori: “Vale la pena di considerare cosa possono fare i social media. È possibile che le aziende abbiano trovato più facile raccontare storie che giustificano gli aumenti di prezzo. I racconti spaventosi di carenze e ritardi sono il tipo di sensazionalismo che attira il clickbait: i media hanno effettivamente potenziato le storie che le aziende vogliono raccontare. Ma è anche vero che i social media possono aumentare il potere dei consumatori di reagire contro aumenti di prezzo percepiti come ingiusti. Un esempio reale è stato il grande boicottaggio della ricotta avvenuto in Israele nel 2011. Un aumento dei prezzi del formaggio aveva portato a un boicottaggio orchestrato attraverso i social media che è stato molto efficace. I politici ne hanno preso atto e in poche settimane gli aumenti dei prezzi sono stati annullati”, conclude Donovan. E se lo dice lui…