Bollettino (parziale) delle disgrazie in montagna di questo mese: tra l’1 e il 2 aprile quattro vittime per valanghe, due in Valle d’Aosta (Valtournenche) e due in Alto Adige (Val Venosta), coinvolti oltre 15 tra scialpinisti e freeriders. Il 4 aprile una valanga nel Sikkim (India) travolge veicoli di turisti lungo la strada, almeno 7 morti e un numero indefinito di dispersi. La domenica di Pasqua, 9 aprile, sul ghiacciaio dell’Armancette in Francia perdono la vita quattro persone. Il 13 aprile una valanga in Val di Rhêmes (Valle d’Aosta) si porta via per sempre tre aspiranti guide alpine. 20 aprile, il crollo di un seracco sul versante francese del Monte Bianco uccide due scialpinisti. Questo è quanto raccontano le cronache, ma sicuramente diversi altri episodi in varie parti del mondo non sono saliti alla ribalta dell’informazione.
Non ci stancheremo mai di ripetere che in montagna il rischio zero non esiste, sebbene sia importante essere preparati ed assumere le opportune precauzioni; il confine tra la fatalità e l’insufficiente cautela non è netto, c’è lo spazio per avanzare alcune considerazioni.
Ci sono periodi dell’anno in cui la probabilità di incidenti in montagna è più alta. Le valanghe ci sono sempre state, è però aumentata la frequentazione delle zone soggette a tale rischio sia per la maggiore accessibilità delle montagne che per il crescente desiderio di fuga dalla città. Se una valanga scende senza fare vittime non fa notizia, è un fenomeno naturale, se invece ci scappa il morto allora piovono titoli come “montagna assassina” e via dicendo. La media del numero di incidenti da valanga è in aumento dal 2000 in poi, ma fortunatamente il numero delle vittime non segue la stessa tendenza; in questo ci viene in aiuto la tecnologia, dall’uso dell’ARTVA (apparecchio di ricerca dei travolti in valanga) agli zaini provvisti di airbag, dall’allertamento dei soccorsi con il cellulare al sempre più rapido intervento del Soccorso Alpino.
La tecnologia aiuta ma non basta, anzi in taluni casi può portare ad un eccesso di senso di sicurezza per il solo fatto di disporre di strumenti “di salvataggio”; se io non so nuotare non mi spingo al largo solo perché ho un salvagente. Le statistiche ci dicono che l’andamento del numero annuo di incidenti mortali è altalenante, in media una ventina di persone ogni anno in Italia muore sotto una valanga, nel 2017 si è verificata una punta di 49 vittime (che comprende le conseguenze della tragedia dell’Hotel Rigopiano in Abruzzo) mentre si contano “solo” 8 decessi nella stagione invernale 2021/2022; circa il 20% delle persone coinvolte in eventi valanghivi soccombe per asfissia, ipotermia o per i traumi causati dal trascinamento, il restante 80% rimane illeso o solo ferito. Principale fonte di pericolo sono la neve fresca e quella riportata dal vento, che non consolidandosi sul sottostante strato di neve vecchia può scivolare a valle per diversi motivi: distacchi spontanei oppure legati al passaggio di scialpinisti o di animali alle quote superiori, forti raffiche di vento, nel caso di Rigopiano anche una scossa di terremoto.
Come mai sempre più spesso le vittime rientrano nel novero delle persone esperte, dotate di attrezzatura e di preparazione adeguata? Il fattore principale che influenza il numero di incidenti da valanga è l’andamento della stabilità del manto nevoso, indipendentemente dalle capacità o dall’esperienza dei protagonisti; le annate con molti giorni instabili hanno un più alto numero di incidenti. I cambiamenti climatici influiscono sulle precipitazioni e sul consolidamento del manto nevoso, ma si tratta di solo una delle varie concause; oggi i bollettini nivometeorologici sono alla portata di tutti, il grado di pericolo va da 1 (debole) a 5 (molto forte) e la maggior parte degli incidenti si verifica in presenza di un grado 3 (marcato), un’indicazione che generalmente scoraggia i principianti mentre gli esperti tendono ad accettare più frequentemente questo livello di rischio. Ad interferire sulle decisioni può contribuire una “agenda” personale da rispettare per cui si tende a non modificare la propria programmazione degli impegni anche di fronte a situazioni potenzialmente avverse, oppure l’approccio “mordi e fuggi” che invita ad utilizzare all’ultimo istante uno spazio libero senza aver fatto una valutazione oggettiva e prudenziale della situazione in montagna; in entrambi i casi si perde di vista il senso del limite e della rinuncia, a cui oggi siamo sempre meno avvezzi ma che in molte occasioni può salvare la vita.
Negli ultimi trent’anni si contano circa 1400 incidenti da valanga in fuoripista, mentre sulle piste da sci solo una quarantina di sciatori o snowboarder sono stati coinvolti dalle valanghe. Di fronte a questi numeri, qualcuno ha pensato bene di “chiudere” le montagne vietando i fuoripista in nome di una sicurezza che, l’abbiamo già detto, non esiste; in realtà il più delle volte si tratta di norme di autotutela emanate dagli amministratori per non dover rispondere ad eventuali chiamate di corresponsabilità in caso di incidenti gravi. Andare per monti innevati è un’attività oggettivamente pericolosa, va affrontata con buonsenso ed umiltà quando invece oggi si tende a privilegiare l’approccio sportivo dove dominano concetti quali performance ed atletismo; la rincorsa alle emozioni forti dovrebbe cedere il passo alla ricerca di quella pace interiore che solo la montagna vissuta con rispetto e consapevolezza sa dare. Ma qui scendiamo nel campo della filosofia e dell’etica, quanto di più lontano dai freddi numeri delle statistiche.