Due eventi, la sentenza della Corte di Cassazione sulla trattativa Stato-mafia e la ricorrenza del trentesimo anniversario della dura contestazione di Craxi all’uscita dall’hotel Raphael di Roma, hanno rispolverato la leggenda della faziosità, politicizzata e persecutoria, della Procura di Milano in Mani pulite e di Palermo nell’antimafia. Di Milano possono parlare altri più qualificati di me. Io dirò qualcosa di Palermo: partendo da lontano, con temi in parte noti, per meglio inquadrare – alla fine – la questione “trattativa”.
Dopo le stragi del 1992 (come già nel 1982 con l’omicidio Dalla Chiesa), superato un iniziale disorientamento si diffondono ovunque rabbia e ribellione, che spingono in modo irresistibile a una rinnovata azione di contrasto contro la mafia. Si forma un fronte di vera e propria resistenza fra tutte le migliori forze della società e dello Stato.
All’unanimità, sia pure con un iter tormentato che solo la morte di Paolo Borsellino riesce a concludere, si introduce un “regime differenziato” per i mafiosi detenuti (l’art. 41 bis). Prima, con un’immagine forse iperbolica ma reale, si parlava di “aragoste e champagne”. E non era ovviamente una questione gastronomica. Significava che in carcere erano i mafiosi a comandare, che la supremazia dello Stato (anche nella struttura più “totalizzante”) era mera parvenza. In sostanza, per i mafiosi il carcere era a tutti gli effetti la continuazione del loro dominio esterno. E se Cosa Nostra riesce a essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre, la battaglia antimafia è persa in partenza. Con il 41 bis tutto cambia. Anche per un importante effetto “aggiuntivo”, che neppure il legislatore del 1992 aveva previsto.
L’isolamento materiale e psicologico degli “uomini d’onore” detenuti, bruscamente privati del sostegno dell’organizzazione (la “forza del gruppo”), li porta a fare i conti con la realtà. Se il carcere diventa una cosa “seria” e nel contempo (dopo la fine dell’impunità di Cosa Nostra sancita con la sentenza della Cassazione sul Maxi-processo) sfuma la facilità con cui in passato si evitavano le condanne definitive, ecco che si cercherà di ridurre questa tenaglia al minor danno possibile, sfruttando gli spazi offerti dalla legge sui pentiti. Di qui “diserzioni” in massa da Cosa Nostra e la scelta di collaborare fattivamente con lo Stato.
Forze dell’ordine e magistratura ritrovano efficienza ed entusiasmo. Vengono avviati processi che portano a condanne per ben 650 ergastoli oltre a un’infinità di anni di reclusione. Vengono recuperati arsenali di armi e tracciati occulti canali di riciclaggio. Inoltre, vengono progressivamente identificati, catturati e processati capi, gregari e killer di Cosa Nostra, tra cui pericolosissimi latitanti come Riina, i Ganci, i fratelli Graviano, Bagarella, Brusca, Aglieri, Giuffrè, Vitale, Spatuzza e molti altri ancora. Si innesca l’antimafia sociale o dei diritti con ingentissimi sequestri di beni di provenienza illecita. È inoltre possibile impostare una nuova strategia d’indagine anche sulle “relazioni esterne” della mafia con alcuni settori inquinati della società civile e dello Stato, così da affrontare (in presenza dei presupposti di legge) pure la “criminalità dei potenti”, che Dalla Chiesa definiva il “polipartito della mafia”. Al riguardo, quelli di Contrada, Andreotti e Dell’Utri sono i più importanti processi in cui le accuse sono state confermate in Cassazione, a dispetto della strategia negazionista o riduzionista che sempre accompagna i processi che si occupano del lato oscuro del pianeta mafia, su quell’intreccio di alleanze, coperture e favori reciproci che è la vera spina dorsale del potere mafioso.
A questo punto, prima di concludere la storia, va detto subito che saranno proprio i pm che hanno ottenuto questi risultati, con altri della stessa scuola, a sostenere l’accusa nel processo trattativa. La rovinosa interazione tra regime carcerario differenziato e pentitismo non era di certo sfuggita ai capi corleonesi. Riina, ancora latitante, sosteneva che si sarebbe “giocato anche i denti”, cioè avrebbe fatto di tutto per cancellare la legge sui pentiti e il 41 bis.
Dopo il suo arresto, nel 1993 l’attacco allo Stato da parte di Cosa Nostra prosegue con crudele efferatezza: via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma (oltre all’attentato, per fortuna fallito, allo stadio Olimpico di Roma) sono i messaggi di violenza e di sangue che la mafia invia all’esterno con l’obiettivo (o nel tentativo) di ottenere dei benefici, in particolare in materia carceraria, contro il 41 bis.
Questi messaggi provocarono un “cedimento” dello Stato? Come si svolse e si risolse il conflitto tra le finalità di Cosa Nostra di attenuare il rigore carcerario e la corrispondente necessità dello Stato di mantenere la linea della fermezza, intrapresa dopo la strage di Capaci a iniziare dal regime del 41 bis?
A questi interrogativi si può seriamente rispondere non mettendo alla berlina i magistrati che hanno fatto il loro dovere, sostenendo verità scomode che perciò non piacciono; ma soltanto con la fatica di analizzare obiettivamente (nella loro complessità e interezza!) le varie ipotesi e risposte che si trovano nella filiera completa degli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia; che, dopo le sentenze di merito della Corte d’assise di primo grado e di appello di Palermo (contrastanti nella qualificazione, ma non nella ricostruzione dei fatti), si è concluso in Cassazione – per definizione giudice di legittimità – con sentenza della quale ancora non si conosce la motivazione.
Senza mai dimenticare, in ogni caso, la preziosa linea di orientamento contenuta in un pensiero di Giovanni Falcone: “Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia”.