Paolo Bellini balbettava. “Soffrivo perché nessuno mi capiva”, dice torcendo il busto sulla sedia. Era entrato in fabbrica nel 1958. Ricorda il primo giorno di lavoro come fosse ieri: la concitazione tra le fornaci alimentate a carbone del cementificio, le tute dei colleghi coperte di polvere, il calore ammorbante. Bellini era un giovane operaio che si era messo in testa di lottare per i diritti. Si iscrisse al sindacato Cgil, studiò, si impegnò e imparò molto. I suoi compagni lo spinsero ad andare oltre, aiutandolo ad esprimersi senza provare vergogna. Divenne così uno dei rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici in fabbrica. E non ebbe più paura delle parole. Quando c’era da scontrarsi con i padroni, Bellini non abbassava più lo sguardo. “Se vai dai lupi, non devi essere addomesticato”, rimarca oggi, a settant’anni di distanza.
Questa storia è la rappresentazione plastica del ruolo emancipatorio che il movimento operaio e le sue organizzazioni assunsero per milioni di persone in Italia. Tra gli esordi degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70, un terremoto sconquassò le certezze del vecchio mondo. Il boom economico e i processi di industrializzazione avevano trasformato un Paese a trazione agricola in una potenza globale. Le disuguaglianze, però, non accennavano a diminuire. Le contraddizioni del modello di sviluppo erano palesi e si riversavano integralmente sulle schiene del 99 per cento della popolazione. Che pretendeva di avere una voce in capitolo sulla propria esistenza. Erano operai, studenti, impiegati, braccianti, intellettuali e attivisti, donne e uomini, animati da un desiderio travolgente di rivoluzionare il mondo, stanchi dello sfruttamento a cui erano aggiogati e affamati di diritti e tutele. Il coacervo prese coscienza di sé e si mise in marcia. La fabbrica era l’epicentro. Il Partito comunista italiano e la Cgil erano i due pilastri del movimento. Attorno alle giganti rosse, gravitavano una miriade di pianeti dalle orbite scomposte, attratti o respinti dalla forza centrifuga della diade stellare. I gruppi della sinistra extraparlamentare – tra cui Potere operaio, Lotta Continua e la futura nebulosa dell’Autonomia operaia -, i comitati di base, i giornali e le riviste, i collettivi e le associazioni che mescolavano il marxismo alle nuove tendenze politiche di rinnovamento della società.
Negli anni le scosse telluriche furono frequenti e di varia intensità. Giovanna Cuminatto iniziò a lavorare nel 1968 in una fabbrica metalmeccanica di Torino. “Le donne, ovviamente, non ricoprivano incarichi dirigenziali o di alto livello”, esordisce. Indossava un grembiule blu abbottonato fino al collo e sgobbava per 44 ore alla settimana. Fu eletta delegata sindacale nel 1974, quando la marea femminista montava nelle piazze. Ma non era abbastanza per abbattere le discriminazioni di genere e il sistema patriarcale. La rottura doveva avvenire in primis dentro l’organizzazione, pur sempre comandata da maschi. “Pretendevamo autonomia, riunioni separate dove discutere dei nostri problemi riguardanti la salute, gli orari e i carichi di lavoro. Non fu facile, anzi”.
Il biennio ‘68-’69 aprì una faglia profonda nella Repubblica italiana. “Il carattere radicale è da rintracciare nella domanda di fondo: mutare i rapporti di classe. Con l’emergere di nuove soggettività e dei loro bisogni”, sostiene Fausto Bertinotti, all’epoca segretario regionale della Cgil piemontese. “Se guardate a quel periodo, non troverete un solo giorno senza scioperi imponenti che investono le principali fabbriche, con cortei e manifestazioni dove le rivendicazioni sindacali incontrano quelle di carattere più generale”.
Giuseppe Rizzotti ne è consapevole. Ripercorre i fatti di Avola sbraitando e agitando le mani. Mima con la bocca il tintinnio dei proiettili, sparati dalla polizia, conficcati nei tronchi di mandorlo. Lui, 55 anni fa, era lì: centinaia di braccianti scioperarono contro le gabbie salariali, il caporalato e per condizioni di lavoro più dignitose, presidiando le vie di accesso al piccolo comune siciliano. “Verso le 8 e 30 del mattino, vennero le camionette e scesero i poliziotti con gli scudi e con i caschi”, racconta. “Lanciavano bombe e lacrimogeni, noi li prendevamo e li tiravamo verso di loro, e loro di nuovo”. La repressione delle forze dell’ordine lasciò sul selciato della Statale 115 due cadaveri, crivellati dai colpi di pistola. Margherita Di Ronzo, invece, partecipò all’occupazione dell’istituto professionale di Bitonto per opporsi all’autoritarismo delle istituzioni scolastiche. Assunta in una fabbrica tessile, comprese una cruda verità. “Non ero più Margherita ma un numero, un codice riportato sulla busta paga”. Attaccava le tasche ai giubbotti, era cronometrata dal caporeparto, assoggettata ai tempi della produzione, alienata tra le spire della catena di montaggio. “La nostra battaglia? Cambiare l’organizzazione del lavoro. Abbiamo escogitato uno stratagemma per rendere il cottimo inutile, andando più lenti. E ci siamo riusciti, costringendo l’azienda ad abolirlo”, dice.
L’universo della reazione e i settori più retrivi delle istituzioni non stettero a guardare. Mentre il conflitto sociale otteneva innumerevoli vittorie – come l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, 20 maggio 1970, il referendum sul divorzio, maggio 1974, e la legge sulla legalizzazione dell’aborto, 22 maggio 1978-, apparati deviati dello Stato armavano i neofascisti per seminare il panico nelle strade. La bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura, a Piazza Fontana, nel cuore di Milano, inaugurò la strategia della tensione. Altre ne esplosero contro i lavoratori. Il 28 maggio 1974, a piazza della Loggia, a Brescia, una manifestazione antifascista fu travolta dallo scoppio di un ordigno nascosto in un cestino. Otto morti e 102 feriti. Le narici di Ivan Pedretti sono ancora pregne dell’odore acre della carne bruciata dal fuoco della detonazione. “Fu una giornata tragica, terribile che mi è rimasta dentro. Un atto atroce e incomprensibile. Scoprimmo che anche le attività di pulizia della piazza servirono a depistare le indagini”, dice.
Secondo Pedretti, attuale segretario dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, il movimento operaio seppe resistere alle bordate nere dello stragismo. Il suo apporto fu decisivo per la salvaguardia della democrazia in Italia. Davanti ai cancelli delle fabbriche, nelle aule delle università e tra i latifondi agricoli. “Eravamo in prima linea su tutto, abbiamo sacrificato noi stessi per difendere la Costituzione e i suoi principi e abbiamo lottato per portare avanti un’idea di società più equa e giusta. In fin dei conti, non avevamo nulla da perdere”.
È online dal primo maggio Ruvide, storie di lotta e lavoro, l’archivio audiovisivo sul movimento operaio italiano, realizzato dal Centro di giornalismo permanente e dallo Spi-Cgil. Il progetto ospita oltre 200 video-interviste al corollario umano che ha animato le battaglie per i diritti tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso. Dalle lotte bracciantili alle migrazioni di massa verso le città industriali del Nord Italia, dai grandi scioperi alle questioni sociali. Una storia, di parte, dell’Italia repubblicana. La biografia di una generazione che ha scelto di combattere per sé e per gli altri. Quindi, parola alla classe lavoratrice.
Foto dell’Archivio storico Cgil nazionale