Dodici milioni di persone in meno. Un quinto dell’attuale popolazione. All’incirca come se l’Emilia, il Piemonte e la Toscana sparissero nell’arco di mezzo secolo, con le loro città d’arte, i piccoli Comuni, gli osannati borghi da cartolina. Eccolo il declino italiano, si legge nelle drammatiche previsioni sul crollo demografico dei prossimi decenni. E sarebbe più facile calarlo nella realtà se non venisse raccontato dal governo con retorica mutuata dal Ventennio, in cui la natalità è un imperativo per scampare alla sostituzione etnica e le nuove leve contribuiranno alla ricchezza della nazione, affamata di lavoro ma povera di braccia, in una riedizione farsesca del Mussolini che fu. Eppure l’emergenza c’è. È reale, tangibile, concreta nei suoi effetti: l’Italia è un Paese di anziani, in cui già oggi si muore molto più di quanto si nasca. La matematica è implacabile: Giorgia Meloni ha ragione, il problema delle nascite va affrontato, serve nuova linfa vitale. Andate e moltiplicatevi, insomma: se non per amore, almeno per la patria. Fin qui la teoria. È la pratica a essere un po’ più complessa. Perché se sostenere la natalità è un obbligo morale e pragmatico, non si capisce il fatalismo impotente con cui l’esecutivo pro life ha accettato di rinunciare alla misura indispensabile per consentire alle persone di procreare, e magari senza dover rinunciare al lavoro: gli asili nido. Indicati come priorità del Pnrr, sarebbero dovuti aumentare fino a 264.480 nuovi posti entro la fine del 2025, accrescendo la copertura pubblica del 122%: oggi, infatti, meno del 25% di chi potenzialmente ne avrebbe bisogno ne trova uno, con disparità territoriali che penalizzano le regioni più deboli. È finita con i bandi che sono andati deserti e la conseguente ammissione del “ridimensionamento dell’obiettivo”. Tradotto: chi li ha, continui a confidare in nonne e nonni. Per non sfigurare, la maggioranza si è inventata altro. Idea choc: tagliare le tasse a chi mette al mondo delle creature. Problema: i soldi non ci sono, e già sono state promesse riduzioni d’imposta a mezzo mondo. Tocca ripiegare sui benefit aziendali, di cui però gode, secondo gli ultimi dati disponibili, meno di un quinto della forza lavoro, e per il 50% quella meglio retribuita: dalla spinta alla natalità all’esasperazione della disuguaglianza il passo è breve. Ma qualcos’altro da fare restava comunque. Si poteva per esempio rinforzare, se non rifondare, la sanità pubblica, che in dieci anni, dal 2010 al 2020, ha contato 111 ospedali e 113 pronto soccorso chiusi, col taglio di 37 mila posti letto. Nemmeno questo è riuscito. Il solito governo pro life ha fatto sapere che nel 2025 la spesa sanitaria sarà pari al 6,1% del Pil, inferiore al dato pre-pandemia e drammaticamente sotto a quel 6,6% che l’Ocse identifica come soglia minima per “evitare il collasso del sistema”: alla faccia dell’aiuto alle famiglie. Non rimaneva che puntare sul lavoro, autodichiarata fissazione di Giorgia: donna, madre, cristiana, nonché prima presidente del consiglio di genere femminile. Chi meglio di lei sa quanto conta la certezza di un impiego, con un salario decente, diritti garantiti e orari giusti, per affrontare la maternità? Chissà allora perché, proprio il primo maggio, in un omaggio che suona come uno sfottò, ha scelto di promuovere la precarietà e di togliere dignità a milioni di persone. Questo succede quando si liberalizzano i contratti a termine, si punta sull’utilizzo di voucher e si toglie il sostegno del Reddito di cittadinanza a chi un impiego non l’ha, creando manodopera a buon mercato. Un ritorno al passato che delegittima il lavoro: più delle nascite, favorisce lo sfruttamento. Il messaggio di fondo suona chiarissimo. Andate e moltiplicatevi, certo: ma se è una femmina non si chiamerà Futura.
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