Del fascismo non si butta niente, men che meno il folclore. Al contrario: va tutelato come una specie – loro direbbero un’etnia – in via di estinzione. Sarà magari talvolta imbarazzante, una sbavatura, nel peggiore dei casi una vecchia abitudine di cui tocca pubblicamente vergognarsi. Ma la verità è che non esiste riparo migliore: catalizza l’indignazione mentre l’autoritarismo avanza con spavalderia. Non è fatto di camicie nere, bensì di colletti bianchi; non di marcette, ma di un calpestio metodico: di diritti, di informazioni, persino della forma e della sua ipocrisia. A sette mesi dall’insediamento del governo di Giorgia Meloni, le formule e le prerogative della partecipazione alla democrazia rappresentativa, già stanche e svuotate da governi “popolari” solo in qualche sondaggio, vanno sbriciolandosi: e il senso comune si adegua rapidamente.
Gli esempi abbondano. Lasciamo pure stare la passione per la decretazione d’urgenza, grazie alla quale il governo si è occupato con pugno duro e ugual trasporto della famigerata emergenza rave, della caccia agli scafisti lungo il globo terracqueo e della precarizzazione del lavoro per liberare braccia a basso costo: 23 decreti legge in sei mesi, un record assoluto. La storia del Parlamento come votificio, d’altronde, in scia con le ultime legislature, è così consolidata da non far nemmeno notizia. Ma è più difficile ignorare l’accentramento a Palazzo Chigi dei poteri sul Pnrr e sulla sua enorme dotazione di denari e influenza, con la parallela soppressione del tavolo di partenariato economico, sociale e territoriale. Domanda: perché dovrebbe essere importante raccogliere stimoli e pensieri dei soggetti su cui ricadono le decisioni? Ascoltare chi sa, valutarne la conoscenza, non sarebbe forse riconoscerne il valore?
La denigrazione delle organizzazioni del lavoro e della cittadinanza serve invece il proposito opposto, da cui la molteplicità di varianti in cui si manifesta: dall’ostinato ignorare gli esperimenti di riconversione industriale e occupazionale come la ex Gkn di Campi Bisenzio alla crociata contro gli spazi reinventati dall’arte “povera” quale il Metropoliz a Roma. Certo, sono negazioni meno sensazionali rispetto alla marcia sull’Inps, il vecchio istituto di previdenza reo di essere il salvagente dei poveri, cioè l’erogatore del Reddito di cittadinanza. Ma c’è un elemento di novità, in questo rifiuto tutto politico del dialogo sociale da parte di Giorgia Meloni e della sua cerchia amicale-parentale: l’assenza di imbarazzo. Al contrario, il rifiuto è ricercato ed esibito come prova di superiorità e di irrilevanza altrui. Come passo baldanzoso verso uno schiacciamento autoritario, a cui le controparti intrappolate dall’abitudine nemmeno si sottraggono: esiste forse un’altra ragione per cui si convocano i sindacati a 12 ore dall’adozione di un provvedimento che li coinvolge senza cambiarne una virgola? Qual è il motivo se non provare che la posizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni non conta nulla, rendendolo evidente? Un po’ come addobbare la sala della Regina per un dialogo sulle riforme istituzionali, salvo arrivarci senza “un piano preconfezionato” – cioè senza niente da dire – e quindi senza alcun confronto possibile: puro sfoggio di forza, perché la riforma comunque si farà in nome del “mandato popolare”.
Pochi ricordano che si tratta di un mandato reso piccino picciò dall’astensione: appena il 14% degli aventi diritto al voto ha scelto Giorgia e i suoi Fratelli. Ma senza qualcuno che la contrasti la nuova prassi fa in fretta ad attecchire fino a sembrare normale, persino giustificata: è l’urgenza del “fare” neoliberale. Non conosce confronto sociale, né comprimari: solo decisori forti e megafoni. Tutti in famiglia, proprio come nel fascismo storico da cui ci facciamo distrarre, mentre questo trova forme nuove per riproporre i suoi tratti essenziali.