E va bene, faremo i supplenti, ancora una volta. Come nacque e crebbe, d’altronde, il movimento antimafia a Milano negli anni in cui prefetti e sindaci e parlamentari negavano la stessa esistenza della mafia in città? O prima ancora quando alla Commissione parlamentare antimafia venne impedito dal governo “più lombardo della storia” di fare una visita, anche una sola, in Lombardia? O quando la più bislacca Commissione dell’era repubblicana giunse nei primi anni Duemila a mettere per iscritto nella relazione finale che la mafia non ha mai influenzato il voto popolare? E in che modo reagì alla mattanza di quarant’anni fa la scuola palermitana, tirando fuori dal cilindro schiere di generosi insegnanti autodidatti? A pensarci, sono sempre scese in campo le riserve, ovvero gli esponenti di altre istituzioni con la vocazione del dovere (magistrati, prefetti, ufficiali delle forze dell’ordine) e quelle della società civile.
Inutile illudersi. Federico Cafiero De Raho, uno dei due nuovi vicepresidenti della Commissione, è magistrato capace e profondo conoscitore delle vicende delle organizzazioni mafiose. Con meriti acquisiti in più luoghi e funzioni, fino all’ultima di Procuratore nazionale antimafia. Ma la storia della Commissione parlamentare è segnata indelebilmente, lo si voglia o no, dalle figure dei suoi presidenti: nel bene e nel male, nel salamandrismo come nel coraggio. I titolari formeranno in commissione i gruppi di lavoro sulle cose più strane, come vedo essere successo anche recentemente. Stabiliranno a maggioranza che cosa va detto e negato. Si ingegneranno di celebrare retoricamente i morti. Faranno la faccia feroce mentre i loro colleghi (ed essi stessi magari) voteranno le norme più utili per perforare i controlli sugli appalti e facilitare la libera circolazione del denaro. Per manomettere la giustizia in questo o quel punto chirurgicamente studiato. E tale è mediamente la loro competenza che forse non se ne accorgeranno nemmeno.
Inutile piangersi addosso. Occorre assumersi responsabilità collettive, mettendo a frutto le opportunità che un giorno furono impossibili. Non esistevano trent’anni fa le tecnologie di diffusione delle informazioni e anche di mobilitazione civile oggi disponibili. Dipendevamo, poveri come eravamo, dai rubinetti codardi od opportunisti della cronaca locale (“alla gente non interessa”). Non vi erano organi istituzionali a cui ricorrere in chiave vicaria. Oggi invece ci sono commissioni antimafia a livello locale, anche in grandi città o in regioni. Facciamole funzionare bene, incisivamente. Non hanno quei poteri di inchiesta attribuiti storicamente alla commissione parlamentare, è vero, ma quei poteri non sono quasi mai stati usati. Nemmeno chi viene chiamato a riferire li conosce. Si costruisca dunque con consapevolezza nuova, valorizzando il tessuto della democrazia, la funzione collettiva di controllo necessaria. Una volta le cose le raccontava all’Italia la Commissione. Oggi i soggetti in grado di farlo sono numerosi, a partire dai rapporti della Direzione nazionale antimafia o della Direzione investigativa antimafia. Quanto alle analisi generali, l’accademia ha dormito per decenni, ma ora alcune università scrivono rapporti in autonomia, dicendo cose anche più informate (meglio: “diversamente” informate).
Il fatto è che ogni istituzione riflette presso l’opinione pubblica il prestigio di chi la guida. Vogliamo mettere Mattarella con Cossiga, pur a parità di partito di provenienza? Insomma, avrebbero detto i leader di una volta ai propri militanti, “al lavoro, alla lotta”. Se i titolari non giocano (ma qualcuno giocherà!), giochino le riserve. E se hanno già giocato finora, lo facciano ancora di più. La nostra democrazia, purtroppo, si regge sulle supplenze. Degli eroi come dei grandi movimenti collettivi.