Le continue richieste del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di limitare l’uso dei decreti legge, che per Costituzione dovrebbero avere solo un carattere di “necessità e urgenza”, sono presto spiegate. Il governo Meloni ha finora adottato 25 decreti in sei mesi, la media più alta delle ultime 4 legislature, secondo Openpolis, con 4,17 decreti ogni 30 giorni. Tantissimi, anche per una Repubblica che ormai da tempo ha fatto l’abitudine all’uso allegro di questo strumento legislativo.
E gli eccessi dell’esecutivo a guida FdI sono destinati persino a peggiorare la situazione, visto che nei due mesi prima delle vacanze estive le Camere saranno impegnate a convertire in legge ben 6 decreti, pena la loro scadenza. Ergo: Parlamento ingolfato e probabile ricorso alla questione di fiducia, con conseguente compressione del dibattito e azzeramento – o giù di lì – delle possibilità di occuparsi anche d’altro, per esempio le proposte di legge di iniziativa parlamentare.
I numeri.
Finora il governo Meloni ha emanato 25 decreti legge. Il portale OpenPolis ha paragonato questo dato a quello di tutti gli esecutivi delle ultime quattro legislature, scoprendo che – in proporzione – nessun altro premier aveva fatto ricorso così tanto spesso a tale strumento.
Se ci si limita al numero di decreti adottati, c’è chi ha fatto peggio di Meloni, ma in un tempo molto più lungo. A partire dal 2008, Silvio Berlusconi ha infatti guidato il governo che ha emanato un numero maggiore di decreti, 80, seguito da Mario Draghi con 64. Poi troviamo l’esecutivo di Matteo Renzi con 56 decreti, due in più del Conte II. Più in basso Mario Monti, 41; il Conte “gialloverde” con 26; Enrico Letta con 25, proprio come Meloni; e infine Paolo Gentiloni con 20.
La graduatoria va però ponderata, appunto, con la durata dell’incarico di ciascun presidente del Consiglio. E allora si capisce bene la recente preoccupazione di Mattarella, visto che Meloni sforna in media 4,17 decreti al mese. Molto più di chiunque altro, nonostante una solida maggioranza in Parlamento. Il governo di Draghi, che pure si era distinto per le prove di forza rispetto al Parlamento, si era fermato a una media di 3,2 decreti al mese, dunque uno in meno dell’attuale esecutivo. Praticamente appaiato a Draghi, OpenPolis rileva poi il governo giallorosa guidato da Conte, che come l’ex Bce ha dovuto fare i conti con la pandemia.
Letto alla luce del tempo trascorso a Palazzo Chigi cambia molto anche il dato su Enrico Letta, protagonista di 2,78 decreti al mese; mentre i tecnici di Monti ne hanno approvati 2,41 ogni 30 giorni. Più staccati il Berlusconi IV (1,9 al mese), il primo governo Conte (1,73) e poi Renzi (1,7) e Gentiloni (1,18). E menomale che proprio Fratelli d’Italia, nei lunghi anni di opposizione, si lamentava spesso di come il premier di turno trascurasse le Camere, costringendo gli eletti ad approvazioni lampo e a un mono-cameralismo di fatto: spesso, dovendo approvare i decreti entro 60 giorni dall’emanazione, il dibattito si concentra in un solo ramo del Parlamento e l’altro si trova a dover votare norme blindate senza potersi permettere alcuna modifica (non ci sarebbe tempo per tornare indietro e far ri-approvare il nuovo testo).
Sempre peggio.
L’imbuto nel quale si stanno infilando i parlamentari è stato il tema di cui hanno discusso giovedì i capigruppo di maggioranza alla Camera Tommaso Foti (Fratelli d’Italia), Riccardo Molinari (Lega) e Paolo Barelli (Forza Italia). Obiettivo: elencare le priorità di cui la destra dovrebbe occuparsi nelle prossime settimane. Il problema è che in Parlamento ci sarà ben poco margine – anche su temi identitari come la legge sulla maternità surrogata come reato universale, pallino di FdI – perché commissioni e Aule a giugno e luglio saranno alle prese con la conversione dei decreti in scadenza.
La Camera avrà il suo bel da fare sui testi del governo. In primis quello sulla Pubblica amministrazione, dentro il quale sono stati inseriti gli emendamenti per limitare il controllo della Corte dei Conti sul Pnrr, che arriverà in Aula la prossima settimana dopo l’approvazione in commissione Affari Costituzionali. Poi partirà l’iter del decreto “Enti Locali” del 10 maggio che contiene la celeberrima norma per cacciare il sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli, Stephan Lissner, liberando la casella che sarebbe dovuta andare all’ex ad Rai Carlo Fuortes. Dalla Camera – ma non è certo – potrebbe partire anche il decreto Alluvione, entrato in gazzetta l’1 giugno. Idem il mini-decreto Sanità, che contiene la norma pensata dal forzista Claudio Lotito per salvare il Molise dal dissesto e nel quale è stata inserita anche la leggina che semplifica la possibilità di spostare i rigassificatori. In più, la commissione Finanze della Camera dovrà iniziare a votare gli emendamenti del disegno di legge delega fiscale.
Al Senato invece si è appena concluso l’iter del decreto Siccità – che dovrà essere convertito in legge dalla Camera entro il 14 giugno – mentre le prossime settimane saranno dedicate alla discussione del decreto Lavoro dell’1 maggio, entrato in vigore il 4. Per i mesi di giugno e luglio, invece, Palazzo Madama si occuperà soprattutto di ratificare in seconda lettura i decreti già approvati da Montecitorio. Come detto, avendo poco tempo è probabile che il governo ricorra a nuovi voti di fiducia (finora sono stati 16, poco meno di 3 al mese), altra pratica di gran successo nelle ultime legislature.
Altre forzature.
A questo ingorgo legislativo si aggiunge anche un’altra stortura in fase di conversione dei decreti. Dopo il richiamo di Mattarella, che ha chiesto ai presidenti delle Camere di limitare gli emendamenti che non hanno alcuna omogeneità con i decreti, il governo non sembra aver invertito la rotta: nel decreto sulla Pubblica Amministrazione sono stati presentati una serie di emendamenti – a partire da quelli già citati sulla Corte dei Conti e il Pnrr fino a quello sulla riorganizzazione nottetempo del ministero della Difesa (blitz fallito solo per il momento) – che hanno attinenza quantomeno discutibile coi relativi testi.
I costituzionalisti, come Stefano Ceccanti e Francesco Clementi, sottolineano l’inopportunità di approvare riforme ordinamentali sotto forma di emendamento ai decreti e con tanto di voto di fiducia. Ma anche su questo il governo fa a modo suo, a costo di imbarazzi col Quirinale. A dicembre, per esempio, i relatori di FdI e Lega avevano infilato in un emendamento la proroga degli aiuti militari all’Ucraina fino a dicembre 2023. Un’enormità, visto il peso della decisione e l’impatto sull’opinione pubblica, liquidata in poche righe a corredo di un decreto che parlava di missioni internazionali e di alcune misure sulla sanità calabrese. All’ultimo il governo aveva ordinato la marcia indietro, salvo poi ricascare più volte nella stessa tentazione.