Lucio Battisti è stato uno dei più grandi artisti del Novecento italiano. Era avanti mille anni luce e ha cambiato radicalmente la forma canzone. L’ho sempre adorato, studiato e ammirato. Di lui mi piace tutto. Dopo il grande successo (grazie!) dei libri dedicati a Franco Battiato (E ti vengo a cercare) e al Signor G (E pensare che c’era Giorgio Gaber), usciti entrambi lo scorso anno per Paper First, mi è parso naturale proseguire la collana musicale con un ritratto agile e affettuoso di Lucio Battisti. La sua storia è fatta di rivoluzioni e commistioni, successi evidenti e inabissamenti apparenti. Per almeno 15 anni non ha sbagliato mezzo disco: gli riusciva letteralmente tutto. È incredibile come Battisti fosse musicalmente avanti: dotatissimo, curiosissimo, non etichettabile. Non amava apparire. La stampa gli ha fatto troppo spesso la guerra. E la vita non gli ha scontato nulla. Tutti credono di conoscerlo, ma in realtà la sua carriera (ricchissima e sfaccettatissima) è per molti un mistero insondabile. Battisti è morto ad appena 55 anni, ma ha fatto in tempo a vivere mille vite. È stato il re del pop, cambiando come nessuno la canzone italiana. È sempre riuscito a coniugare la ricerca sistematica e la sperimentazione più totale (a tratti persino incosciente) con una capacità rabdomantica di essere nazionalpopolare e felicemente commerciale. Un disco come Il nostro caro angelo, uscito giusto 50 anni fa, è intriso di rivoluzione: tutt’altro che un’opera “facile”, eppure vendette smisuratamente. Più osava e più vendeva. Tramutava in forma canzone tutto quel che sentiva nel mondo anglosassone (dal rock alla disco music), trovando anche il tempo di piluccare nelle sonorità sudamericane e riuscendo – ogni volta! – a declinare ogni cosa in chiave italiana. Battisti era uno e trino: ascoltarlo è una fortuna, raccontarlo è una montagna russa. Se avesse potuto, avrebbe abbracciato l’invisibilità più totale. Non amava i concerti, non amava parlare, non amava esserci: credeva fermamente che la sua arte cominciasse e finisse con la sua capacità di generare musica. Una capacità che è rimasta vivida e pulsante fino alla fine, e quindi anche con la tetralogia “bianca” coi testi di Pasquale Panella. Battisti viveva il presente ma vedeva il futuro, e quando ci si immergeva dentro creava dischi insondabili come Anima latina: nel 1974 lo compresero in pochi, oggi lo ritengono (a ragione) uno dei più grandi capolavori di sempre. Lucio Battisti era troppo avanti e troppo alieno: una meraviglia pura. Spero che il mio libro vi aiuti a scoprire appieno un artista unico e inarrivabile, a cui tutti noi dobbiamo moltissimo. Come ha meravigliosamente scritto il battistianissimo Edmondo Berselli nel libro Canzoni, Lucio Battisti era così: “Un implacabile costruttore di melodie. Onnivoro, versatile, attentissimo alla produzione internazionale, era capace di tradurre in vocalità italiana, in suono nazionalpopolare, tutto ciò che circolava in Inghilterra e in America. Ascoltava, mischiava e rielaborava. Ma bisogna dire che lui, Battisti, che poi sarebbe diventato il cerimoniere invisibile di una speciale liturgia dell’assenza, era fin dalla gioventù una specie di maniaco del pop, convinto che attraverso la musica di consumo si potesse effettivamente ‘fare ricerca’, e che comunque il mestiere e l’arte del cantautore implicassero uno sforzo pressoché infinito di approfondimento artigianale e di perfezionamento tecnico”.
Per quanto riguarda me, questo piccolo libro – Il genio invisibile: un titolo spero tanto chiaro quanto programmatico – è nato per una serie di motivi. Perché Lucio Battisti è stato, soprattutto tra il 1967 e il 1978, la più grande e geniale espressione italiana del concetto di “canzone popolare”, o se preferite di “musica leggera” (che leggera non era per niente). Perché Battisti sta all’Italia come i Beatles stanno al mondo (e infatti i Beatles lo adoravano, e non solo loro. Per esempio anche David Bowie). Perché Battisti credono di conoscerlo tutti, ma in realtà (veramente bene) lo conoscono in pochi. Perché era un genio: un implacabile costruttore di melodie, ora immediatissime e ora ricercatissime (spesso entrambe le cose, contemporaneamente). Perché nessuno, tra i miti italiani, ha coltivato così ostinatamente – al limite del masochismo e dell’ossessione – il concetto più assoluto e totale di assenza. Perché se ne fregava della politica, ma è stato – quasi suo malgrado – uno dei più grandi rivoluzionari del Novecento. Perché ancora oggi viene chiamato da molti “papà dei cantautori”, eppure “cantautore” non lo era per niente, avendo quasi mai scritto testi per se stesso. Perché quando Mogol gli dava dei testi splendidi sapeva esaltarli, e tutto sommato per lui era quasi facile, ma quando Mogol gli propinava dei brani dai testi bruttini, quando non raggelanti (e ce ne sono), sapeva esaltarli lo stesso. E per certi versi, in quei casi, si divertiva persino di più. Perché Lucio non ha parlato quasi mai, ma ha detto tutto. Perché l’ho sempre adorato, anche per quella voce unica e meravigliosamente sghemba che poteva essere criticata solo da chi di emozioni e musica non capisce niente, e quest’anno che avrebbe compiuto ottant’anni – per giunta a venticinque anni esatti dalla sua scomparsa, col ricordo che forse comincia colpevolmente a sbiadire – mi è sembrato bello e giusto dedicargli queste pagine.