Settecentomila pronti a partire, 60mila già arrivati, 950 ricollocati. E poi sbarchi raddoppiati, hotspot sovraffollati, protezioni dimezzate. Sui migranti, oggi e sempre, diamo i numeri. Peccato che siano quelli sbagliati. E non solo perché la crociata per la “protezione dei confini esterni”, ossessione del governo Meloni, causa amnesie sul dato davvero importante: 30mila esseri umani annegati – lasciati annegare – negli ultimi dieci anni nel Mediterraneo.
C’è di più: angosciati dai nuovi arrivi, ci dimentichiamo di chi è già qui. Si tratta di 5 milioni di persone straniere – dati Istat, verosimilmente sottostimati – che vivono e lavorano in Italia, nonostante 40 anni di frontiere chiuse e di bollinature di “irregolarità” per chi non ha un motivo giuridicamente accettabile per lasciare casa propria: come se guerre, carestie, violenze, povertà e speranze di vita migliore non fossero intrecciate al punto da rendere la definizione stessa di “migranti economici” inservibile, oltre che moralmente inaccettabile. Eppure, a dispetto degli ostacoli materiali e della propaganda, questi 5 milioni di uomini e donne di cui anche la società civile più impegnata si dimentica sono letteralmente indispensabili alla vita della nazione, per usare un gergo caro e comprensibile al sovranismo di governo. Producono il 9% del Pil e contribuiscono a tenere in vita il Paese, arrestandone lo spopolamento: basti dire che il tasso di fertilità delle donne italiane si ferma a 1,18, ma è di 1,87 per quelle straniere.
L’evidenza è così schiacciante da costringere il ministero dell’Economia retto dal leghista Giorgetti a segnalare che al posto dei porti chiusi servono quelli aperti, perché un aumento dell’immigrazione netta del 33% porterebbe entro il 2070 a un calo del debito pubblico di oltre il 20%. E da spingere il teorico-a-sua-insaputa della sostituzione etnica, ministro Lollobrigida, a lanciarsi nella promessa, poi rimangiata, di 500mila ingressi regolari in due anni per coprire il mercato del lavoro.
Grattando appena la superficie dell’allarme per l’emergenza permanente, insomma, è chiaro che la questione dell’immigrazione va trattata oltre la logica della (non) accoglienza. Invece la premier si affanna a convincere il resto d’Europa a sigillare il mare – assurdità concettuale – senza rendersi conto che molte persone straniere in Italia nemmeno ci vogliono stare, e per ragioni strutturali su cui si dovrebbe intervenire. A partire dalle procedure complicatissime per il riconoscimento di titoli di studio esteri: chi vuole raccogliere pomodori in condizione di semi-schiavitù quando potrebbe fare il mestiere che ha imparato, e che magari serve pure? Vedi alla voce Germania e siriani, che tanti mal di pancia ha provocato. C’è anche chi non resta perché ci vogliono tra i 15 e i 20 anni per ottenere la cittadinanza, quando va bene: essere la spina dorsale di una nazione senza il riconoscimento dei diritti associati – welfare incluso – non ha grande appeal. Per non dire dello scandalo di una gioventù assolutamente indispensabile, in un Paese vecchio e spompato, che scopre a 17 anni di non essere ufficialmente italiana, benché sia nata e cresciuta qui, parli solo questa lingua, conosca solo queste scuole, strade e usanze. Che si sente, insomma, non del tutto voluta. E chissà perché una delle prime mosse del governo è stata svuotare l’osservatorio del ministero dell’Istruzione sulla scuola interculturale, incubatore fondamentale di idee e pratiche di integrazione.
Al posto di occuparsi di italiane e italiani di fatto, Meloni viaggia per l’Africa stringendo patti con autocrati e aspiranti tali in nome del diritto “a non emigrare”: un modo nobile per chiamare il patto internazionale dei conservatori reazionari contro i deboli, a ogni latitudine.