A vederlo da Vespa, qualche sera fa, tenere bordone alla santificazione di B. veniva da apostrofare Massimo D’Alema con il morettiano “Di’ qualcosa di sinistra!”: un leader muto di fronte agli attacchi ai giudici e spento, forse per le indagini che lo riguardano, che ripropongono il tema degli eletti dal popolo che usano la politica per fare affari o sfruttare il potere loro delegato durante o anche dopo il mandato, vedi Minniti, Violante, Padoan (eppure le porte girevoli non sono scontate: ricordo un sottosegretario dell’Ulivo che dopo 5 anni passati al ministero delle Comunicazioni ricevette proposte allettanti ma, con grande dignità, rifiutò).
Dietro questi fatti c’è per la sinistra, e di questo dovrà occuparsi la Schlein se vuole scrivere una pagina nuova, il fantasma di quella questione morale che per primo Berlinguer sollevò nell’intervista a Scalfari e che qualcuno oggi vuol leggere come la premessa della rinuncia politica e la ragione dell’isolamento comunista negli anni 80. Ignorando che la solitudine del Pci fu da ascrivere non alla questione morale (tutt’altro) ma al contesto internazionale e alla svolta conservatrice di quella stagione: la Dc abbandonava Zaccagnini, Craxi puntava allo scontro con i comunisti per sfruttarne l’isolamento e i due leader dell’apertura La Malfa e Moro non c’erano più.
Pur con limiti di analisi, quell’intervista coglieva con largo anticipo la mutazione italiana: “I partiti hanno occupato lo Stato… tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan a cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”.
Ora il punto è che Berlinguer rivendicava al suo partito l’estraneità a queste pratiche e la “diversità” dei comunisti; un’affermazione non del tutto vera perché anche il Pci queste pratiche non le disdegnava, in Rai come nelle banche, e come si era visto nel luglio del 1977 in una tornata di nomine che aveva creato non pochi imbarazzi e l’autocritica di Chiaromonte. Insomma, il segretario non faceva scuola nel suo Pci e questo Berlinguer lo sapeva, se è vero che confidava amareggiato sempre a Scalfari, alla fine del 1979, che “molti dei nostri hanno scambiato qualche poltrona nel Cda della Rai per una conquista politica. Ma non è per questo che la classe operaia ci aveva affidato la sua rappresentanza”.
Dunque Berlinguer capì che il partito stava diventando come gli altri, subalterno a quel sistema degenerato che egli così lucidamente, e inascoltato dai suoi, denunciava, con una forza che gli derivava anche da questa consapevolezza. L’errore della sinistra non fu allora quello di essere o sentirsi diversa, l’errore fu di non esserlo. La sua presunta diversità/superiorità non esiste da 40 anni ed è singolare che lì si tenti di ricondurre le ragioni delle tante sconfitte, perché il problema della sinistra da gran tempo è proprio l’esatto contrario: l’essere diventata uguale, forse troppo uguale agli altri (ancora Moretti), per pratiche e cultura politica omogenea a quel sistema che Berlinguer metteva al centro della sua profetica analisi.
A chi confonde la morale politica col moralismo è il caso di ricordare che la politica iniziò a perdersi proprio quando cominciò a smarrire etica e onestà. Con i risultati che oggi si vedono anche a sinistra.