Durante le riprese de Il Principe, la docuserie che ho diretto e coprodotto assieme a Francesco Melzi per Netflix, sono emerse molte novità. Alcune – anche grazie al racconto dei testimoni, che per la prima volta in quarant’anni ripercorrono la notte in cui Vittorio Emanuele di Savoia sparò a Dirk Hamer – aiutano a dissipare la confusione che spinse la Corte d’Assise di Parigi ad assolvere il principe nel 1991. Quelle per me più inaspettate hanno a che fare però con l’emotività dei protagonisti: alla fine delle riprese, ho dovuto mettere in discussione alcune certezze che avevano radici lontane.
Non è la prima volta che mi occupo di questa storia. Il caso Savoia ho cominciato a viverlo da bambina, respirando in casa la frustrazione della sorella di Dirk Hamer, quando Birgit chiedeva prima un processo e poi si disperava per una sentenza di cui non si capacitava. Birgit l’ho sempre chiamata “zia” perché era amica di mia madre Paola già nella vita di prima. Erano diventate inseparabili durante i mesi dell’agonia di Dirk, fino al giorno in cui mia madre la aiutò a organizzare il funerale del fratello. Mia madre assorbì il dramma di Birgit fino a trasformarlo in una presenza costante nella nostra vita; per me è stato una bussola per cominciare a comprendere cosa fossero la connivenza e il potere. Era importante, irrinunciabile, schierarsi dalla parte di chi aveva subito una violenza e pretendeva giustizia. Quello che è sempre mancato, negli anni in cui Savoia, senza saperlo, faceva parte delle nostre vite, era la possibilità di una risoluzione.
Il trauma di Birgit è stato ereditato anche dalle sue figlie, Sigrid e Delia: da ragazzine, incontrando a una festa Emanuele Filiberto di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele, scoppiarono letteralmente in lacrime, nonostante lui non avesse colpe. Anche io, durante i miei anni da cronista, ho attaccato senza sosta Emanuele Filiberto, oltre a suo padre, quasi fossero la stessa persona. Sentivo più il dovere di vendicare Birgit che quello di raccontare una storia dall’interesse pubblico. Era un rancore ingiustificato, irrazionale, eppure dominante.
Poi ci fu una svolta. Quando, dopo cinque anni di ricerche, Birgit e io trovammo il video in cui Vittorio Emanuele confessava di aver sparato a Dirk – dopo averlo negato per decenni – decidemmo di pubblicarlo sul sito del Fatto Quotidiano. In quelle settimane scrissi articoli durissimi contro Savoia e contro la sua famiglia. Ne seguì una causa per diffamazione contro me, Birgit, Francesco Aliberti – editore di Delitto senza Castigo – e il giornale, che alla fine vincemmo.
Per tutte queste ragioni credevo di essere l’ultima persona cui il principe avrebbe affidato il racconto della sua vita, eppure per me era fondamentale che partecipasse, non solamente per il bene del progetto, perché è la sua storia, perché la sua versione dei fatti non l’aveva mai davvero data. C’era anche un’altra ragione per cercare quell’intervista impossibile: avevo bisogno di disinnescare le dinamiche personali, e questo documentario era un’occasione unica per affrontare il passato senza preconcetti, alla ricerca di una riconciliazione che potesse liberare Birgit, le sue figlie, mia madre e in fondo anche me dal peso di un passato irrisolto.
Questa volta, dunque, la situazione era completamente diversa: ero certa di voler fare un lavoro il più possibile obiettivo, senza lasciarmi guidare da un invadente vissuto privato. Solo che Savoia non lo sapeva. Nell’ottobre del 2021 siamo arrivati a Gstaad, in Svizzera, assieme ai primi fiocchi di neve, che in un paio di giorni hanno coperto le cime dei pini colorati d’autunno che circondano lo chalet di Vittorio Emanuele. Eravamo una quindicina di persone con due camion di attrezzature e la flebile speranza di convincere Savoia a farsi intervistare. Nonostante l’intercessione di Emanuele Filiberto – che era diventato un ponte tra noi e la sua famiglia, forse per via del desiderio simile al mio e a quello delle figlie di Birgit di affrontare il passato senza riserve – i Savoia restavano comprensibilmente scettici. Per questo gli ho scritto una lettera di scuse: ero fiera di aver trovato e pubblicato la sua confessione, ma avrei dovuto fare di tutto per avere anche il suo punto di vista, e avrei dovuto tenere a mente che era comunque una persona. Quella lettera aprì uno spiraglio.
Casa Savoia a Gstaad è un bellissimo chalet di legno su tre piani, circondato da una foresta con tutti i toni dell’arancio, pieno di amuleti che raccontano di una dinastia, più che di una famiglia: c’è la sciabola di Vittorio Emanuele III, corta per via della bassa statura che fu sempre, raccontano in casa, fonte di grande frustrazione per il Re. C’è l’imponente ritratto della regina Maria Josè, con tiara e orecchini di diamanti oggi contesi tra i Savoia e la Banca d’Italia. La piccola fotografia di Re Umberto, un padre anaffettivo e a sua volta trascurato dai genitori, pare messa in mezzo alle altre per dovere. Vittorio Emanuele, 85 anni, si presenta per ultimo. Girocollo nero, bastone, gli stessi occhi azzurri che lo rendono riconoscibile nelle foto di ogni età, arriva sorretto da due assistenti che lo scortano dietro a un bancone di legno dove, dicono, ormai passa le sue giornate.
I giornalisti, s’intuisce dalle smorfie della sua bocca che si accartoccia a ogni menzione di un quotidiano, sono stati la vera spina nella vita di quest’uomo dall’identità infranta. Incontrare me, che per anni l’avevo tormentato, è stato in fondo un gesto di coraggio, oltre che un diversivo per sottrarsi alla monotonia di giornate che passano lente. È stata un’intervista insperata e imprevedibile, da cui sono emerse tante verità, a volte nascoste dalle parole ma tradite dalle espressioni, dagli sguardi, dalle battute inopportune che cercano di celare dolori lontani. Ne è uscito un racconto caleidoscopico, senza filtri e senza pregiudizi. Ma l’emozione più forte è stata accompagnare le nuove generazioni in questo viaggio, tanto straziante quanto necessario, per liberarsi da quel dolore ereditato. L’ultimo capitolo è affidato al lascito di Emanuele Filiberto – che pensando alle sue figlie spiega che “saranno le prime in mille anni a essere libere” perché lui vuole “lasciare qualcosa di pulito” – e di Sigrid e Delia Hamer, che oggi dicono: “Quello che ci resta è il futuro. Ce lo siamo guadagnate”.
(tratto dalla prefazione alla nuova edizione de “Il Principe. La vera storia di Vittorio Emanuele” di Birgit Margot Hamer, edito da Aliberti)
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