Dotare gli insegnanti e le insegnanti di uno strumento di lettura e interpretazione del reale che lo analizzi dal punto di vista del genere: per questo motivo le due studiose Irene Biemmi e Barbara Mapelli hanno appena pubblicato, per Mondadori Università, il primo manuale italiano di Pedagogia di genere. Il testo si compone di tre parti: la prima segue la storia della pedagogia e della pedagogia di genere; la seconda riflette su alcuni dei temi che attraversano la teoria e la pratica educative; la terza propone percorsi di lettura per l’infanzia e l’adolescenza, utili ad accompagnare le crescite sessuate di ragazzi e ragazze in maniera ampia e libera. Pubblichiamo uno stralcio tratto dal capitolo “I linguaggi delle diversità”.
…Quasi un altro mondo che richiede parole nuove o linguaggi adeguati, risignificando anche termini che già esistono, cercando di capire – ed è il dono principale che ci viene da questo sforzo di comprensione e nominazione – come la ricerca di parole per narrare esperienze e vissuti differenti da quel che noi siamo o pensiamo di essere, in realtà può divenire anche occasione per ripensare alle nostre stesse esperienze, al nostro divenire nel tempo. A porci, insomma, in un’attitudine critica – o perlomeno di inedita attenzione – rispetto alle nostre scelte e ai nostri percorsi biografici, pur se apparteniamo alla moltitudine di chi è definito o si autodefinisce nella normalità, con quel che può significare questa affermazione, di cui sappiamo o intuiamo la sottesa intenzione manipolatoria.
Far emergere tutto ciò, con una ricerca minuziosa sul linguaggio, è un esercizio ineludibile di autoeducazione, una pedagogia trasformativa che, applicata primariamente dal soggetto su di sé, può estendersi alla comunicazione educativa.
Proseguiamo dunque con una riflessione ulteriore rispetto al linguaggio usato nei confronti delle minoranze sessuali. Nel momento in cui coloro che sono sempre stati messi al margine della realtà rispettabile, coloro che suscitano scandalo, oggetti legittimati di ogni ingiuria, in questo nostro tempo possono prendere finalmente e direttamente – ma ancora con molti limiti – la parola, queste persone, testimoni diretti di modi del vivere differenti dalla maggioranza, trasformano i termini più o meno ingiuriosi con cui sono sempre stati definiti – abbietti, mostruosi, devianti, anormali, malati – in un momento identificativo di sé, in una parola o una narrazione enunciata per dirsi, che assume significati differenti e positivi perché è il soggetto stesso che si nomina con quel termine e in questo modo ne trasforma il senso.
Ne è un esempio la parola queer, difficilmente traducibile in italiano, un termine polisemico, ma che ha alle origini sempre significati spregiativi, molto vicini all’aggettivo italiano abbietto. Queer, l’irrappresentabile, che muta con la sua fluidità, palesa la volontà di non definirsi in un’identità sessuale fissa bensì mobile, indicibile, diviene esempio evidente della trasformazione dei significati, del lavoro sulle parole che si piegano e si riempiono di altro senso. Queer è divenuto un termine accettabile, nobilitato e scambiato anche nei luoghi di formazione delle culture: negli atenei – ma non ancora in Italia – si sono sviluppate le queer theory, con la nascita delle relative cattedre, con corsi prestigiosi, moltissime pubblicazioni.
Lo studioso francese Didier Eribon definisce uscita dalla vergogna l’appropriazione, da parte dei soggetti che ne sono stati bersaglio, di parole sempre usate con intenzioni ingiuriose: l’uso sottolineato di termini che hanno sempre significato l’allontanamento dalla società per bene diviene o può essere percepito come una dichiarazione di fierezza, un’esibizione narcisistica, ma è anche energia, forza trasformatrice. Questa risignificazione, scrive sempre Eribon, è un atto di libertà per eccellenza e comunque il solo possibile, perché apre le porte all’imprevedibile e all’inedito, in cui si sperimenta la potenza trasformativa del linguaggio, la necessità di conoscere a fondo il senso delle parole che si usano e si trasmettono nella comunicazione, quella educativa in particolare.
In questo caso, ed è un esempio particolarmente esplicito, parole sempre usate come ingiurie divengono palcoscenico di realtà e riconoscimento di sé, nel momento in cui il soggetto se ne appropria e afferma chi lui o lei è, nella misura in cui la parola, il gesto, la frase ingiuriosa, mutata di senso, pronuncia l’essere di chi si è (Eribon 2015, passim). E trasforma anche le percezioni di chi ascolta, di chi si pone nell’attitudine di osservatore e osservatrice attenta, capace a sua volta di mutare, attraverso un uso differente delle parole, la propria visione del mondo.
In ogni caso la visibilità di chi è sempre stato tenuto fuori campo, eccentrico rispetto alle culture e usi sociali dominanti, la trasformazione del linguaggio – crediamo più profonda di quanto non appaia, ma certo non sufficiente – è una radicale messa in discussione dell’organizzazione sessuale, affettiva e sociale proposta come l’unica possibile e proponibile, perché naturale ed è, inevitabilmente, anche una profonda rivoluzione epistemologica, che riguarda tutte e tutti. Riflettere su un linguaggio attento ad ogni diversità non significa soltanto – ma non è poco – rispetto per gli altri e le altre, per le loro forme di vita e scelte, ma propone a ognuno l’occasione per ripensarsi, per valutare i propri cambiamenti, e innestare la capacità di accettare una realtà che cambia facendosene protagonista.
*Irene Biemmi è ricercatrice di Pedagogia generale e sociale presso l’Università di Firenze, dove insegna Pedagogia di genere. Barbara Mapelli ha insegnato Pedagogia delle differenze di genere, Facoltà di Scienze della Formazione, Ateneo di Milano Bicocca