Dicono che quando c’era Lui i treni arrivassero in orario. Di certo da quando c’è Lei continuano a giungere in ritardo. Anche di ore. Sì, perché le nostre ferrovie, non importa se pubbliche o private, sono la metafora di un Paese (o se preferite, visti i tempi, di una nazione) che ama imbrogliare e crogiolarsi nelle bugie. Così le Fs, sprezzanti del ridicolo, prima comunicano con incomprensibile soddisfazione alla nostra valente collega Natascia Ronchetti che “l’indice di puntualità dei treni ad alta velocità è passato dal 77,9% del 2019 all’80,2% del primo semestre 2023”. Poi involontariamente svelano che pure questo poco lusinghiero dato è truccato. “Otto treni su dieci”, spiegano, “arrivano o in orario o con uno scostamento di dieci minuti, sette su dieci sempre in orario o con uno scostamento di 5 minuti”. Geniale vero?
Per fingere di non essere quello che si è (trovate voi la parola, perché a noi ne vengono in mente solo da querela) basta chiamare i ritardi “scostamenti” e stabilire che sotto i dieci minuti il treno è puntuale. Una neo-lingua utile per capire perché in Spagna, dove il 95% dei convogli spacca il minuto, i passeggeri abbiano diritto a un rimborso pieno anche in caso di piccoli ritardi, mentre da noi sulle Frecce finché si sta sotto le due ore ti restituiscono solo il 25% del biglietto.
Ora, noi siamo ultra tolleranti. Comprendiamo ogni giustificazione. Sappiamo bene che la linea Milano-Roma è sovraccarica, usurata e sottodimensionata. Tanto che oggi con i treni più veloci per percorrerla ci vogliono 15 minuti in più rispetto al 2019 (da questo punto di vista le ferrovie sono una metafora pure dei mancati aumenti salariali). Vediamo poi i molti lavori in corso per il Pnrr che creano problemi e non ci sogniamo di voler diventare come il Giappone, dove per un ritardo di un minuto vi sono macchinisti finiti sotto inchiesta e per un ritardo di venti minuti c’è persino un dipendente che – poveraccio – si è ammazzato. Siamo buoni, insomma. Però non siamo fessi.
Per questo gli zebedei ci girano quando ci rendiamo conto che il virus ferroviario in Italia ha ormai infettato un po’ tutti. Anche il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini e la premier Giorgia Meloni. Solo il “contagio” può del resto spiegare perché la presidente del Consiglio abbia inaugurato la tratta Roma-Pompei quando il Frecciarossa mille impiegato all’uopo l’avrebbe dovuta percorre solo un giorno al mese. Possibile che a nessuno a Palazzo Chigi sia venuto in mente che tagliare un nastro per un treno che viaggia con una frequenza da andropausa avrebbe suscitato polemiche di ogni tipo (tanto da spingere all’annuncio di una nuova cadenza settimanale)?
In attesa che quel convoglio arrivi in ritardo anche sulla prossima eruzione di Pompei, i viaggiatori si possono comunque consolare con il nuovo diretto Napoli-Bari, magnificato da Salvini perché “la sinistra non è stata in grado di realizzarlo”. L’intercity ci mette mezz’ora in più rispetto ai treni già disponibili (con cambio a Caserta) e un’ora in più rispetto agli autobus: quattro ore e dieci per percorrere 300 chilometri sono un record ottocentesco. Ma, spiega Salvini, sono anche un simbolo di libertà: “L’obiettivo è l’alta velocità (in costruzione, ndr). Oggi se qualcuno vuole salire a Napoli e scendere a Bari senza scali intermedi può farlo. Se preferisce non farlo non lo fa”. Il nostro, assicura insomma il ministro, era e resta un Paese libero. Un po’ come gli orari ferroviari: tempi di partenza e arrivo ci sono, ma poi ciascun treno fa come gli pare. Viva l’Italia.