L’area politico-culturale interna al Pd che fa capo a Bonaccini – guai a chiamarla corrente – sconfitta al “congresso” si è data appuntamento a Cesena. Nella divisione del lavoro, Bonaccini ha usato toni misurati, altri decisamente polemici contro il nuovo corso. Si è avuta conferma di quanto sia arduo il compito della Schlein: per dirla diplomaticamente, coniugare pluralismo e identità politica finalmente definita e riconoscibile di un partito troppo a lungo irrisolto. Appiattito sull’establishment e affollato più di altri da un ceto politico professionale erede diretto o indiretto dei partiti di un tempo. Talvolta incline a concepire il partito come ufficio di collocamento anche fuori dalla politica e dalle istituzioni. Dalle banche all’industria delle armi (sic).
Non ha torto chi fa risalire tale travaglio al dualismo/contraddizione della discrepanza tra voto degli iscritti e voto degli elettori. Facile accodarsi alla critica del mito delle primarie aperte. Ma si deve coltivare un po’ di memoria: a) esse furono concepite a fronte di partiti decadenti ostaggio dei padroni delle tessere al fine di allargare la partecipazione a cittadini-elettori talvolta più “liberi” e motivati dei tesserati, nonché per sparigliare il sindacato di blocco di correnti cristallizzate e paralizzanti; b) a concepire quello statuto furono soprattutto i liberal-riformisti seguaci di Bonaccini, in polemica più o meno dichiarata con la vecchia forma-partito modulo Pci.
Giusto ridiscuterne, ma ciò non dovrebbe impedire di osservare come quella regola, effettivamente singolare, nella circostanza, si sia rivelata una opportunità, uno scossone provvidenziale. Salvo esorcizzare il limite a cui si era spinta la crisi del Pd. Un partito sconfitto e afflitto da un clima depressivo interno ed esterno che induceva taluni a prospettarne lo scioglimento.
Dalle cronache di Cesena si apprende che le voci più critiche si appuntano sulla giustizia, sulle ricette di politica economica, su una postura asseritamente tiepida nell’ancoraggio atlantista in tema di sostegno militare all’Ucraina. Nonché sulla colpa, imputata alla Schlein, della sconfessione della stagione renziana. So bene che tutti si affannano a smentire e tuttavia ancora lì siamo. A conferma che quello è ancora un nodo irrisolto, il fantasma di un passato che non passa. Del resto, i temi sono ancora quelli, come pure i soggetti, coloro che si riconobbero in quella stagione.
Sorprende che neppure l’approdo del protagonista (Renzi) – il suo collaborazionismo con la maggioranza, la sua guerra ai magistrati esattamente al modo di Berlusconi spinta sino alla ostentata solidarietà alla lettera complottista della figlia Marina – getti una luce retrospettiva su di essa. Più ancora sorprende la debolezza argomentativa sottesa alla rivendicata parola magica e abusata di riformismo. Ovvero la cifra di cui ci si fregia con il palese intento di bollare gli altri come massimalisti. Come ha fatto di recente l’inconsolabile renziano Massimo Recalcati. Lascia basiti la schematica, manichea opposizione tra riformisti e massimalisti. Gli uni saggi, gli altri velleitari ed estremisti. Come se la questione non fosse oggetto, da una vita, di elaborazione e confronto a sinistra. Da sempre si discute e ci si divide sull’idea-concetto di riformismo. Dovrebbe essere acquisito che non ve ne è uno solo.
Ancora: come se il suddetto, imprecisato riformismo buono non fosse comunque da definire e ridefinire contestualizzandolo; come se, con quel che è successo nel mondo dalla nascita del Pd (de-globalizzazione, crisi finanziaria, pandemia, guerra), non fosse cambiato nulla. Rimuovendo la manifesta circostanza di un “cambio di fase” che impone di ripensare i vecchi ma anche i più recenti paradigmi di metà anni novanta legati alla ideologia di una globalizzazione priva di profili critici. Come ha argomentato anche Prodi.
Infine un interrogativo: se davvero si vuole nobilitare, prendendolo sul serio, il pluralismo delle culture interne al Pd, meriterebbe chiedersi se, nella mozione Bonaccini, sulle questioni che contano – economia, istituzioni, immigrazione, pace-guerra, bioetica – davvero si dia consonanza tra liberal-liberisti, cattolici popolari, ex Pci-Pds-Ds che semmai contestano alla Schlein la sua estraneità a quella tradizione e ai suoi paradigmi. Ciò che soprattutto sembra unire è l’opposizione alla Schlein. La convergenza “contro” anziché “per” non sarebbe esattamente un tratto del riformismo.