Andrà tutto bene, dicevamo. Ma era prima di sapere che tre anni dopo l’apparizione del Covid ci sarebbero stati ancora 178mila interventi chirurgici da recuperare, oltre a quasi un milione di screening oncologici e a 5 milioni di visite mediche da calendarizzare. Tradotto: un esercito di persone da curare, forse troppo tardi, con mezzi sempre più scarsi. Già, perché il personale sanitario a cui si tributavano applausi dai balconi, nel frattempo scarseggia: secondo i sindacati di categoria mancano 29mila figure professionali, di cui 4.311 medici. Quelli che ci sono sempre più spesso abbandonano gli ospedali e si rendono disponibili a chiamata: si direbbe a cottimo, se non si trattasse di un “gettone” da 1.000 euro per turni di 12 ore, cifra esorbitante frutto di una politica poco avvezza a fare di conto, per cui non si investe nel pubblico – cioè in assunzioni e salari – ma si strapaga chi è chiamato a risolvere le emergenze.
Andrà tutto bene, dicevamo. Ma era prima di leggere il resoconto striminzito delle spese che il generale Figliuolo ha consegnato giorni fa, a stagione Covid ampiamente finita. Trattasi di numeri poco pubblicizzati e si capisce perché: in due anni se ne sono andati 4,3 miliardi per i vaccini contro il coronavirus, con altri 1,2 miliardi stanziati per il 2023. Circa 1 miliardo, poi, è stato destinato a farmaci antivirali e anticlonali: quelli che potevano cambiare il corso della malattia, ma a cui pochissimi hanno avuto accesso. Il totale è una cifra non troppo distante dallo stanziamento annuale per il Reddito di cittadinanza (a proposito di misure che salvano la vita alle persone), tagliato dal governo Meloni in una furia anti poveri sospinta dalla sacra ragione moralizzatrice del rigore di bilancio.
Andrà tutto bene, dicevamo. Ma era molto prima di scoprire che la piattaforma pubblica di ricerca e sviluppo per un vaccino italiano, Reithera, stava in effetti dando i risultati sperati quando si è deciso di interrompere la sperimentazione e di affidarsi anima, corpo e portafoglio alle scoperte di Big Pharma, acquistando a prezzi da usura farmaci salvavita che erano già stati pagati dalla ricerca pubblica. E che, grazie ai contratti capestro firmati in tutta segretezza a Bruxelles, in parte sono finiti nella spazzatura, perché arrivati troppo tardi, quando le dosi non erano più necessarie o quando già erano disponibili gli aggiornamenti: 80 milioni di fiale inutilizzate a fine 2022 che diventeranno 173 milioni a dicembre di quest’anno. A proposito di rigore di bilancio.
Non è andato bene proprio niente, insomma. E, siccome siamo in Italia, oltre al dramma c’è adesso la beffa di una commissione Covid creata per regolare conti politici e personali a suon di colpi bassi. In questo deserto, tuttavia, una speranza c’è e arriva proprio dall’Europa: lì l’analoga commissione ha vergato un Rapporto sulle lezioni dalla pandemia di Covid-19, votato anche dal Parlamento, che contiene l’invito a creare una infrastruttura pubblica europea per la ricerca e la distribuzione di farmaci. Ovvero la base di un sistema sanitario veramente pubblico, votato all’interesse della popolazione, nonché – udite udite – economicamente molto più efficiente. Cosa significhi questo per il servizio sanitario nazionale è presto detto: se alle emergenze si arriva preparati, se non si sperpera denaro regalandolo ai privati, restano i soldi per pagare personale, esami e interventi, oltre naturalmente alle cure. Per recuperare insomma un diritto costituzionalmente garantito, benché in via di scomparsa.
Diranno i soliti che si tratta di utopia: con le Europee alle porte, la campagna elettorale è già partita. La novità è che i partiti possono farla con un obiettivo concreto: restituire alla cittadinanza il diritto alla sanità. Un modo per ridare senso anche a se stessi: d’altronde, se non lottano per la nostra salute perché dovremmo votarli?