In questi giorni, sono stato invitato a un paio di talk show televisivi in cui si è discusso del salario minimo e della relativa legge in bilico. Ascoltando gli interlocutori mi è venuta in mente la storiella indiana secondo cui l’elefante vive 100 anni e la farfalla vive solo un’ora.
Dunque, l’elefante non può dire alla farfalla: “Per favore, aspettami dieci minuti”. Molti intervistati si comportano come quell’elefante: invocano rinvii, ritocchi, ricalcoli e ripensamenti della legge come se i loro tempi di vita agiata coincidessero con quelli di milioni di working poor che attualmente guadagnano meno di 9 euro all’ora. Un povero è così povero che non può attendere. Lui e i suoi figli hanno bisogno di mangiare qui e ora.
Come faceva notare già mezzo secolo fa Gian Antonio Gilli, lo stato di povertà condiziona ogni aspetto della vita: rispetto ai ricchi, chi è povero ha molte più probabilità di non sopravvivere alla nascita, di morire in giovane età, di interrompere gli studi, di non saper verbalizzare, di contrarre determinate malattie, di rinunziare alle cure mediche, di andare in carcere o in manicomio, di essere costretto a un lavoro infame e di fame. Sia io che gli altri “esperti” dei talk show (tra i quali manca sistematicamente il sindacalista) godiamo di uno stile di vita infinitamente superiore a quello dei lavoratori poveri, magari alcuni di noi sottopagano la loro “serva” (come la chiamerebbe Leo Longanesi), eppure ci sentiamo in diritto di disquisire sulla condizione indigente, di sapere quali sono le loro esigenze, di decidere quali debbano essere i loro doveri e i loro livelli di sopportazione.
Ci sono dunque due convitati di pietra in questi talk show. Oltre ai sindacalisti, mancano proprio loro: i morti di fame, i percettori di un salario inferiore a 9 euro lordi. Eppure, come calcola Dino Greco in un suo articolo di lucida radicalità, sono 4.578.535. Quasi il 30% di tutte le lavoratrici e quasi il 40% di tutti i lavoratori giovani. Addirittura sono il 90% dei collaboratori e delle collaboratrici domestiche; il 35% di chi lavora in agricoltura. Ognuno di loro conosce certamente più di noi, finti esperti, la condizione di sfruttato e ne parlerebbe con ben maggiore cognizione di causa. Non sarebbe difficile convocarne qualcuno negli studi televisivi, magari pagandogli 10 euro. Bisogna risalire a Maurizio Costanzo Show o ai mirabili reportage di Domenico Iannaccone per trovare qualche povero dietro lo schermo, finalmente intervistato come fosse un essere umano, capace di intendere, volere ed esprimersi.
Ma i poveri, come diceva il leader brasiliano Leonel Brizola, non hanno lobby. Non solo sono tenuti lontani dagli studi televisivi, ma sono ignorati sia dal sindacato perché non hanno la tessera, sia dai partiti perché tendono a non votare. È un circolo vizioso: non si iscrivono e non votano perché sindacati e partiti non hanno voluto o saputo apprezzarli statisticamente, educarli politicamente, compattarli organizzativamente, difenderli economicamente. Se 4,5 milioni di lavoratori esasperati dalla miseria scendessero in piazza con i forconi, sotto un’unica bandiera, e assediassero Montecitorio con la stessa radicalità dei loro colleghi francesi, il 70% degli italiani sarebbe con loro, la legge passerebbe immediatamente e il minimo salariale arriverebbe a 12 euro come in Germania.
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Questi lavoratori sottopagati non sono sottoproletari, “stracci al vento” come li chiamava Marx. Sono proletari a tutti gli effetti, dipendenti di aziende precise con una sede precisa, che svolgono mansioni precise e percepiscono paghe precise, regolarmente tassate. Ma il sindacato non è capace di includerli nella contrattazione collettiva, né gli interessa farlo perché li considera cani sciolti e randagi. Anche in alcuni casi in cui è riuscito a farsene carico contrattando in loro nome, non ha saputo ottenere dai datori di lavoro che paghe da fame. Dino Greco cita il caso di un Contratto Collettivo Nazionale dei Servizi fiduciari, regolarmente stipulato da Cgil, Cisl e Uil, che stabilisce un salario di 5 euro l’ora. È dovuta intervenire la Corte d’appello di Milano per invalidare questa clausola incostituzionale perché “non proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato”. Dunque il sindacato, di per sé, ha ampiamente dimostrato di non saper raggiungere, aggregare e difendere i lavoratori poveri; tuttavia, è riluttante all’idea che, di fronte alla sua constatata incapacità, sia lo Stato a garantire la sopravvivenza dei poveri con una legge ad hoc.
In questi talk show taroccati, in cui non è mai prevista la presenza fisica di lavoratori poveri e di sindacalisti, spiccano i volti cupi degli economisti. Come sempre quando si tratta di aiutare i poveri e non i banchieri, essi si chiedono preoccupati dove si prenderanno i soldi per elevare i salari e che impatto avrà il salario minimo su quelle imprese che oggi sopravvivono proprio grazie al fatto che pagano salari di fame. Il loro collega Galbraith risponderebbe: “È bene che di tanto in tanto il denaro si separi dagli imbecilli”.
Dove si prenderanno i soldi? In Italia le 10 famiglie più ricche posseggono una ricchezza pari a quella di 6 milioni di italiani poveri. Perfino durante la grande crisi 2008-2018, il patrimonio dei 6 milioni di italiani più ricchi è ulteriormente cresciuto del 72%. È assai probabile che tra questi 6 milioni di straricchi ci siano coloro che reputano eccessivo un salario di 9 euro e, quando ne parlano, omettono di precisare che si tratta di 9 euro lordi. Quest’obolo, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali, si riduce a 6 euro netti l’ora. In termini mensili si scende da 1.547 euro a 1.037 euro. Magari con questa somma il lavoratore povero deve sfamare non solo se stesso ma anche il coniuge e un paio di figli. Come se non bastasse, la Meloni lo incita a fare altri figli per donare altre braccia alla patria.
Fin dal primo momento ho sostenuto che l’andata al governo delle destre avrebbe ottenuto come primo risultato la polarizzazione delle posizioni in merito ai diritti civili e sociali. Dunque, avrebbe radicalizzato i conflitti e avrebbe riportato la politica sopra l’economia. Come in economia il dilemma contrappone socialismo a neo-liberismo, così in politica contrappone democrazia ad autoritarismo. Dunque la sfida, ridotta all’osso, è tra socialismo e democrazia da una parte, neo-liberismo e autoritarismo dall’altra.
Ai tempi del New Deal, per combattere la crisi, un padre del neo-liberismo come Ludwig von Mises predicava che tra libertà politica ed economia occorresse sacrificare la democrazia. Più tardi, ai tempi di Pinochet, l’altro padre del neo-liberismo, Friedrich von Hayek, confermò: “Meglio un liberalismo restrittivo, che sapesse un po’ di autoritarismo che una democrazia illimitata”. L’autoritarismo comincia sempre dall’oppressione dei più deboli. Questo governo di destra ha iniziato con i poveri, annacquando il Reddito di cittadinanza, sopprimendo il decreto Dignità e, ora, ostacolando il salario minimo proprio nel Paese che da trent’anni non fa altro che abbassare i salari.
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