Per tutti loro oggi è “uno specchietto per le allodole”, “dannoso per i lavoratori”, “assistenzialismo”, “uno slogan estivo”, ma in realtà i partiti che oggi si oppongono al salario minimo – quelli di maggioranza più quello di Matteo Renzi – hanno avuto, nel corso degli ultimi anni, idee anche del tutto opposte a quelle di questi giorni. Basta scavare tra le dichiarazioni, le proposte di legge depositate nelle precedenti legislature, ma anche tra le promesse da campagna elettorale, per notare che Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Italia Viva hanno proposto, in periodi nemmeno tanto lontani da oggi, l’introduzione di una soglia minima di legge per le retribuzioni dei lavoratori. Cosa che oggi, in maniera apparentemente inspiegabile, rinnegano.
FDI. Partiamo dalla principale forza di maggioranza: Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni oggi ha chiuso la porta al salario minimo, aprendo solo ad altri interventi sui quali discutere nella sede (non) neutra del Cnel. Nel 2019, con al governo Giuseppe Conte, Fdi presentava invece un disegno di stampo opposto: prima firma di Walter Rizzetto, che oggi – da presidente della commissione Lavoro alla Camera – è stato in prima linea per “parare” l’iniziativa delle opposizioni. Quattro anni fa, invece, Rizzetto suggeriva proprio di individuare una cifra come soglia minima di riferimento per i contratti collettivi. L’idea non era imporla già nel testo della legge, ma di affidare la quantificazione a una commissione di esperti. Al netto di questo aspetto differente rispetto all’idea delle minoranze, che già indicano 9 euro, l’impostazione era la stessa: c’è una cifra, stabilita da un organo centrale, che non può essere derogata nemmeno dagli accordi tra sindacati e associazioni di imprese più rappresentativi.
Lega. Sembrerà assurdo, ma anche la Lega di Matteo Salvini ha in taluni momenti sostenuto la necessità di un salario minimo. Era il 2017, al governo c’era Paolo Gentiloni e il leader del Carroccio twittava sulla necessità di “prevedere un salario minimo che impedisca schiavitù e sfruttamento”. Ancora più decisa era la proposta del programma elettorale alle elezioni 2018: il salario minimo doveva essere introdotto “indipendentemente dai contratti nazionali e a quanto concordato dalle cosiddette parti sociali”. Questo deve stabilire “per legge che ogni ora di ogni lavoratore non possa essere pagata al di sotto di una certa cifra”. Anche qui, non si dava il numero preciso, ma lo schema era identico al disegno di legge delle opposizioni al quale ora si fa guerra.
Fi. Seppure molto raffazzonata, anche Forza Italia ha in passato proposto una qualche forma di salario minimo. Qui non serve esercitare troppo la memoria: basta risalire alla campagna elettorale di settembre 2022. Silvio Berlusconi allora disse: “Quando saremo al governo interverremo affinché lo stipendio dei giovani sia almeno di 1.000 euro al mese. Non sarà un costo per le aziende, perché l’eventuale maggiore esborso sarà compensato dai tagli sulle tasse e sulle altre spese contributive”. Una promessa piuttosto superficiale, visto che non ha senso parlare di salario mensile senza associarlo a una tariffa oraria, ma anche qui si scorgono elementi simili alla proposta delle opposizioni: il governo stabilisce la retribuzione minima per chi deve lavorare e aiuta le imprese ad applicarla tramite uno sconto sulle tasse.
Iv. La giravolta più clamorosa, però, resta quella di Matteo Renzi. Perché il leader di Italia Viva, in passato, non solo ha sostenuto il salario minimo, ma ne ha anche prevista l’introduzione nella legge delega sul Jobs Act. Era scritto che la cifra minima di legge doveva essere inserita quantomeno nei settori non coperti dalla contrattazione. Un’occasione eccellente per inserire il tema al centro del dibattito politico, ma la delega non fu più esercitata, e quindi sfumò. Oggi Renzi dice di essere stato a favore di un salario minimo persino da 10 euro, subito dopo l’introduzione del Reddito di inclusione nel 2018. Ma la verità è che quand’era al governo del Paese non volle proseguire con un progetto avviato dall’esecutivo di cui era alla guida. Il motivo è che nel frattempo Confindustria si mise di traverso e Renzi non volle fare uno sgarbo, anche considerando lo storico scetticismo dei sindacati, specie della Cisl che resta su quella posizione.