L’intervista - Pantaleo Corvino

Il ds del Lecce Corvino: “I presidenti sono un guaio, non vado in ferie da 3 anni e Astori è il grande dolore”

Il direttore tecnico del Lecce - È uno dei personaggi storici nel mondo del calcio: "Come i cavalli di razza, voglio morire su un campo da pallone"

3 Settembre 2023

Al tenente colonnello Bill Kilgore piaceva svegliarsi la mattina e sentire l’odore del napalm; a Pantaleo Corvino piace alzarsi molto presto (“alle 7 sono già diretto al centro sportivo”) e sorridere davanti al profumo dell’erba dei campi da calcio.

Settantaquattro anni a dicembre, è uno dei grandi guru del mondo del pallone, uno di quelli in grado di cogliere il tocco magico ancor prima degli altri; uno da leggenda, da gavetta, da liturgia vissuta con ortodossa consapevolezza.

Come sta?

Meglio, è terminato il calciomercato.

Lo descriva.

È come stare in sala parto, quando sono le ultime ore…

Non dorme e non mangia.

Mi affido al vissuto, mi affido al mio “io”…

Qual è il suo “io”?

Ho imparato a risolvere prima le questioni, non arrivo mai strozzato, o almeno cerco di evitare.

È oramai un guru.

(Ride, prende tempo) Eppure ho ancora troppa voglia del mio lavoro; (pausa) ho passione, desiderio di sacrificarmi, mi diverto, gioco con l’esperienza e nonostante gli anni non avverto la stanchezza.

Si sente trattato da guru?

Voglio morire come i cavalli di razza: in pista.

Preferisce in campo o in tribuna?

Anche su un campetto, basta sia lì.

Per il calcio a cosa ha rinunciato?

Mi è mancato… (si ferma, riflette, ci ripensa). A venticinque anni sono partito dal sotto marciapiede del calcio, la Terza Categoria, e sono arrivato per quattro volte in Champions League; (altra pausa, ora scandisce) sono quasi a 650 gare in Serie A, per cinque volte sono stato in B e di queste cinque in quattro stagioni ho vinto il campionato.

Sì, ma a cosa a rinunciato?

Mi è mancato il calcio d’élite, mi manca lo scudetto…

Come mai?

Qualche possibilità c’è stata, ho solo scelto di rispettare il contratto e non deludere la fiducia.

A chi ha detto di no?

Squadre che possono lottare per lo scudetto. Ma bene così.

Da dove arriva il nome Pantaleo?

Mi chiamo Pantaleo Oronzo e ho due date di nascita.

Perché?

Sono nato il 12 di dicembre però mi hanno registrato il primo gennaio in modo da guadagnare un anno sul militare; Pantaleo era mio nonno da parte di padre, Oronzo nonno da parte di madre.

Sintesi perfetta della famiglia.

Sono incazzato nero con mio figlio.

Che ha combinato?

È nato l’unico erede Corvino e non lo ha chiamato Pantaleo; (pausa) al ragazzo voglio bene lo stesso, però con mio figlio resta l’incazzatura: non ha voluto ricordarmi.

Pantaleo è un bel nome.

Bellissimo, lo adoro. E da sempre.

Nonostante…

C’è stato il periodo dei nomi esotici e Pantaleo ha poco di esotico.

La prendevano in giro.

Sì, sì.

Però lei è un salentino tenace, da mascella serrata.

Siamo gente cresciuta con gli ulivi secolari; (pausa) quando devo concentrarmi, quando devo riflettere, vado in campagna e mi metto sotto un ulivo.

Negli ultimi anni è arrivata la Xylella.

Ho un’azienda agricola e sono stato costretto a estirpare 1.200 ulivi: uno strazio, un dolore poco descrivibile, ne ho salvato qualcuno secolare anche se non produce più nulla; (cambia discorso) pure il mare mi tranquillizza.

Bel binomio.

Se non fossi diventato direttore sportivo, avrei optato per il contadino.

Però era in aeronautica.

Perché a 15 anni e mezzo mio padre, muratore, si è ammalato e poi è finito in sedia a rotelle: per portare a casa la pagnotta ho mollato il pallone e sono stato costretto a tentare il concorso in aeronautica: 25.000 aspiranti per 1.500 posti.

Il suo ruolo nel calcio?

Un buon mediano, ma ero troppo giovane per capire le potenzialità; (sorride) a 25 anni ho iniziato la carriera dirigenziale nel calcio e a 39 ho mollato la divisa.

Decisione presa con chi?

(Stupito) Da solo.

Neanche con sua moglie?

No, lei mi ha solo detto: “Fai tu, tanto decidi sempre in autonomia”; lasciai uno stipendio da 2 milioni per una pensione da 600 mila lire. Il problema fu dirlo a mio padre.

Dolore.

Per due settimane andavo da lui in visita e non trovavo il coraggio; un giorno lo raggiungo e lo vedo fuori dal barbiere. Lì mi dico: “È la volta buona, non è a casa, magari non urla”; mi avvicino, era in cima a una discesa: “Papà metti il freno a mano”, temevo si scapicollasse.

E…

Non voglio riportare le sue parole, comunque per i due mesi successivi impose a mamma di non aprirmi la porta di casa.

Tosto.

Era un maestro muratore.

Invece sua moglie l’ha sempre assecondata…

In viaggio di nozze andiamo con il treno in Belgio; dopo un giorno di viaggio arriviamo a Charleroi e lì leggo una locandina: era in programma la sfida con il Bruges. Attenzione, era febbraio, un freddo spaventoso.

Nient’altro?

La porto allo stadio e come pasto le prendo un panino con il würstel. Era pure incinta.

Donna paziente.

Da tre anni sono tornato a Lecce e da tre anni non la saluto la mattina: esco da casa alle sette.

E torna?

La sera tardi.

Vacanze?

Niente da tre anni.

Mai, mai?

Non devo deludere chi mi ha rivoluto a Lecce e quando è così non si devono guardare gli orari né i giorni (chiamato dal presidente Saverio Sticchi Damiani, ndr).

Ci vuole il fisico.

Ancora mi è rimasto.

Ha la fama del sergente di ferro.

Se uno segue e rispetta le regole sono la persona più buona del mondo.

Vucinic non ha seguito le regole.

Chi ha la responsabilità deve anche saper educare e, se parliamo di giovani, deve intervenire sugli atteggiamenti fuori dal campo.

Insomma, Vucinic.

L’avevo preso in Montenegro e in un match con la Primavera reagì malissimo contro l’arbitro; lo portai a forza negli spogliatoi e gli spiegai il suo prossimo futuro: “Non so quanto prenderai di squalifica, ma per lo stesso periodo, giorni o mesi, ti allenerai con la categoria inferiore e tutte le mattine sarai tu ad aprire il campo e gli spogliatoi”. Per tre mesi è andato avanti così.

I giocatori sono riconoscenti?

Ho visto centinaia, migliaia di ragazzi e a molti di loro, compresi i genitori, sono stato costretto a distruggere i sogni di gloria, a spiegare che non avevano prospettive da professionista. “Meglio se studi”.

Quindi?

Lì per lì le reazioni sono sempre dure, poi anni dopo in tanti mi hanno fermato, ringraziato e si sono scusati; in realtà avrei voluto qualche sputo in faccia.

In che senso?

Qualcuno che mi dicesse: “Direttore, quel giorno ha sbagliato, mio figlio c’è riuscito”. Non è mai successo.

Però nella sua carriera ha avuto tra le mani Cassano e non l’ha tenuto…

Macché! Venne in prova nel mio Casarano, ma aveva altre richieste e la famiglia preferì il Bari; in quel periodo giocava in squadra Miccoli e sognavo la coppia d’attacco Cassano-Miccoli.

Di Cassano aveva intuito le qualità?

Bastava poco per capirlo.

Un giocatore da cosa lo vede?

Il parametro più importante e facile è la destrezza; (pausa) è complicato spiegare e descrivere quali sono i parametri, è una sorta d’intuito.

L’anno scorso Zaccheroni al Fatto si è detto favorevole al sesso prima delle partite…

Sono d’accordissimo, il sesso fa sempre bene.

Sempre.

Una trombata non altera le prestazioni.

Sono più faticosi i genitori o i procuratori?

Attualmente né gli uni né gli altri; i problemi arrivano da altrove.

Da dove?

Penso ai presidenti, alle proprietà; (ci pensa) manca qualche presidente del passato, quelli di oggi fagocitano tutto e non capiscono che pure la realtà del calcio è un’azienda e come tale va trattata.

Nello specifico?

I presidenti si concentrano sulla questione extracomunitari, ma è una bufala: in un mondo globalizzato non ha senso, mentre dovrebbero puntare sul management, sui settori giovanili, sulle strutture, sugli stadi.

Non come il calcio di Carlo Mazzone.

C’erano più sentimenti, più ideali. Che rimpiango.

Oggi è il calcio made in Arabia.

Ripeto, siamo in un calcio globalizzato, quindi era prevedibile; magari lo sport, in certi Paesi, serve a mutare il loro stile di vita e a noi portano risorse economiche.

Benedetti petrodollari.

Per fortuna non stanno puntando sui giovani, ma quasi solo su giocatori sul viale del tramonto.

Mancini in Arabia: stupito?

Non mi stupisce più nulla.

Il podio dei giocatori che ha scovato.

Ai tempi del Casarano penso a Miccoli; a Lecce, Vucinic, Pellè, Chevanton, Lucarelli, Bojinov, Ledesma; a Firenze, Gilardino… (e continua con un elenco lunghissimo). Sono pezzi di cuore.

Umanamente a chi è legato?

Ne sento tanti, da Miccoli a Vucinic e Lucarelli; Chevanton è qui a Lecce.

Miccoli ha una condanna a tre anni e sei mesi…

Eh, che non lo so?

Gli è stato vicino?

Va chiesto a lui; (pausa) nella vita, alle persone a cui vuoi bene, devi stare vicino quando compiono qualche stupidaggine.

Il momento più doloroso della sua carriera.

La morte di Astori (nel 2018, ndr): ragazzo meraviglioso, un dolore che mi accompagna sempre; da una settimana ci vedevamo per il rinnovo del contratto; (pausa) l’unica salvezza è guardare al futuro.

Lo fa il Fantacalcio?

(Ride) No, no.

È scaramantico?

Solo con i gatti neri: se ne vedo uno davanti, allora torno indietro.

Chi è lei?

(Resta in silenzio) Penso a un film di Sergio Leone e alla colonna sonora di Morricone: Il buono, il brutto, il cattivo.

(Ps. Richiama poco dopo: “Ho trovato il rimpianto: non so ballare la pizzica, non sono mai sceso in pista”. E sua moglie? “Lei sì, è brava. Io purtroppo no”)

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