Arichiesta di parere sull’operato del ministro di Giustizia, Franco Coppi risponde: “Conosco bene le norme sulla diffamazione…”. Applausi e risate in platea. Stessa domanda a Piercamillo Davigo: “Mi associo”. Altri applausi. Carlo Nordio riesce a far toccare gli opposti. L’avvocato dei potenti, degli imputati eccellenti (Berlusconi e Andreotti, solo per citarne un paio), e il pm di Mani Pulite, il magistrato anticorruzione per antonomasia, uniti nel giudizio tranchant su Nordio, sollecitati dalle domande di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli.
L’occasione è la festa del Fatto e il dibattito sullo stato della giustizia. Uno stato comatoso, anche su questo l’accordo è unanime. E la riforma cotta nelle cucine di Via Arenula e approvata in Consiglio dei ministri pare un rimedio inutile, quasi dannoso. A cominciare dall’abolizione dell’abuso d’ufficio. “L’hanno messa in cima alla riforma ma è una cosa che non serve a nulla – sostiene Coppi – rientrerà nella prassi come corruzione”. Davigo ricorda che è stata chiesta dai sindaci, la famosa “sindrome della firma” che paralizzerebbe le amministrazioni pubbliche. “Non facessero i sindaci se hanno paura di firmare: l’abuso d’ufficio per come è in vigore oggi è sostanzialmente simile all’articolo 19 di una convenzione Onu e se lo abroghiamo saremmo uno dei pochi Stati a uscirne, e gli Stati che escono da quelle convenzioni si chiamano Stati canaglia. Alle ultime Amministrative si sono candidati in 80mila, di quale sindrome della firma parlano?”. Barbacetto insiste più volte su un tema: c’è continuità o no con l’era berlusconiana in cui era normale contrapporre giustizia e politica? “Questa fase dovrebbe essere finita, dovremmo avere un governo più neutro, ma mi chiedo: c’è rottura tra lo ieri di B. e l’oggi di Meloni?”.
Si prova a trovare una risposta affrontando questioni concrete di (mal)funzionamento della giustizia e di come questo governo intenda affrontarle. Il decreto Caivano, ad esempio, ricorda Pacelli “appare come un decreto securitario”, poi però la cronaca e le indagini sull’ex senatore Verdini libero di incontrare politici nonostante stesse scontando una condanna definitiva, ci ricorda che per i colletti bianchi esiste un doppio binario: “La giustizia non è uguale per tutti, vero”? Davigo annuisce: “È così in tutti i Paesi: i più ricchi hanno gli avvocati migliori, o possono scappare all’estero, i poveri non possono e spesso non sono molto intelligenti e si fanno arrestare in flagranza”. C’è una carenza di deterrenza: “Abbiamo un codice che ha massimi spaventosi e minimi risibili: in caso di furto di tre automobili, con due aggravanti, la pena massima può essere 30 anni, la minima 4 mesi e 2 giorni. Sbaglia il legislatore che investe il giudice di una discrezionalità così ampia”.
Lavoriamo per una giustizia più veloce, il mantra di ogni governo. Prevedere un collegio di tre giudici per arrestare un indagato va in quella direzione? La risposta di Coppi è negativa: “È un’altra cosa fatta all’italiana. Salvo che non si voglia procedere con effetto sorpresa, non si ricorre al collegio per i reati più gravi, quando la logica richiederebbe il contrario”. E poi dove stanno tutti questi magistrati? “Non so come si farà nei piccoli tribunali a trovarli, per evitare successive incompatibilità nei gradi successivi. È una riforma che allungherà i tempi della giustizia e complicherà la vita dei piccoli tribunali. Ma l’importante è buttare una proposta e poi si vedrà”. I problemi però iniziano da lontano, secondo Davigo, dal codice approvato nel 1989: “Lo commentai come Fantozzi con La Corazzata Potemkin: “Una boiata pazzesca: l’attività di indagine non entra nei processi, la cui durata si triplica, si costringono i poliziotti a rileggere in aula atti già a disposizione nel fascicolo del pm. Questa è una garanzia o una idiozia?”.