Una piazza non fa primavera, e nemmeno autunno caldo. Può però segnalare alternative; dare rappresentatività. A quel 40% della cittadinanza che non ritiene più di andare a votare; agli abitanti di Caivano che il governo non si è nemmeno degnato di incontrare dopo averli usati per propaganda; ai poveri “che mangiano meglio dei ricchi”, ma mentre studiano il prossimo menu perdono il sostegno economico indispensabile per fare la spesa; alla gioventù che difende il pianeta, accusata di “ecoterrorismo”; persino a chi non crede alla guerra “come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”, che si scopre fan di Putin al posto di pacifista. A tutti coloro, insomma, che aspettano di contare qualcosa. E sono molti. A dispetto di continui inganni, c’è un popolo che ancora ostinatamente crede che l’applicazione della Costituzione sia l’unico modo per migliorare le condizioni materiali del Paese, con l’ispirazione di uguaglianza, giustizia e solidarietà di cui da tempo nella politica non v’è traccia. Ora quell’ispirazione il governo progetta di cancellarla anche formalmente, grazie alla trovata dell’autonomia differenziata. Cosa significa? Meglio dirlo in modo chiaro: la fine dell’universalismo e del ruolo dello Stato. Che si tratti di servizi, asili, ospedali o infrastrutture la regola è una: chi ha, avrà; chi già oggi non ha, resterà senza tutto. Si capisce allora perché le ragioni per scendere in piazza esistano, il prossimo 7 ottobre, e perché oltre alla Cgil nazionale siano un centinaio le associazioni aderenti alla manifestazione, appartenenti a tutti i mondi. Insieme costituiscono un’opposizione diffusa e orizzontale, con istanze specifiche e comuni, che denuncia il precariato e il disastro nella sanità, l’abbandono della scuola e delle marginalità, l’esigenza di confronto, dialogo, cura. Si radunano intorno al sindacato perché, a dispetto di scelte non sempre condivisibili, è ancora, con i suoi 5 milioni di iscritti, la grande forza aggregante del Paese, capace di catalizzare intenzioni e proposte. Ma, appunto, una piazza non fa autunno caldo. E quando Maurizio Landini, con tono combattivo, promette che se il governo non ascolta la piazza il sindacato darà battaglia, è bene che sappia che quel popolo non va tradito. Di “faremo, diremo, combatteremo” se ne sono sentiti moltissimi. Mentre da noi si vagheggiava lo spettro della mobilitazione, i francesi occupavano strade e città contro una riforma delle pensioni che per noi sarebbe comunque migliorativa; gli inglesi hanno paralizzato persino gli ospedali – prima volta nella storia – per sbloccare un necessarissimo aumento dei salari; e i ferrovieri tedeschi hanno proclamato un maxi sciopero con il quale hanno ottenuto un altrettanto maxi aumento della retribuzione. La lezione è chiara: l’indicativo futuro non basta più, serve concretezza. A tutte le persone che ancora trovano la forza di impegnarsi bisogna offrire realtà, cioè veicolare il loro impegno a richieste per il governo che siano tangibili e misurabili: assunzioni serie, aumenti retributivi, salario minimo, rafforzamento dei controlli dell’ispettorato del lavoro per garantire sicurezza. Senza un obiettivo da raggiungere la battaglia rischia di essere puramente simbolica, e l’esecutivo è già pronto a sterilizzarla col ritornello disonesto: “Protestano, ma nemmeno sanno cosa faremo”. Purtroppo, invece, le indicazioni di cosa faranno ci sono tutte, e tocca a Giorgia Meloni dimostrare che non è vero. Se il sindacato e le associazioni sapranno rovesciare il tavolo, ponendo le loro condizioni, supereranno lo smacco di un governo che, nei fatti, non riconosce interlocutori a parte lobbisti e amici propri, costringendolo alla responsabilità delle proprie scelte. Ed è questa La Via Maestra, per cui – è lecito immaginare – centinaia di migliaia di persone scenderanno in piazza.
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