Altro che un’emergenza che coinvolge milioni di persone. Chi si era convinto che la povertà lavorativa in Italia fosse un problema da affrontare subito tirerà un sospiro di sollievo leggendo il XXII Rapporto annuale dell’Inps pubblicato ieri. Il primo firmato dalla commissaria Michela Gelera, scelta dal governo dopo aver riformato per decreto la struttura di vertice dell’istituto e messo alla porta il presidente Pasquale Tridico. Il documento, infatti, assicura che i working poor sono solo 871.800 in tutto il Paese e quelli indigenti solo per colpa di paghe da fame (e non perché lavorano per poche ore) si fermano a 20mila, “una componente marginale”. Risultati ottenuti con qualche astuzia statistica, come vedremo. E perfetti come assist alla premier Giorgia Meloni, che è contraria al salario minimo e in agosto, incalzata dalle opposizioni, ha preso tempo passando la palla al Cnel di Renato Brunetta.
Torturare i dati: come far sparire i working poor
Per capire quanto quei numeri siano distanti dalle stime più accreditate conviene rispolverare la Relazione sul lavoro povero scritta nel 2021 dal gruppo di esperti istituito dall’ex ministro Andrea Orlando e coordinato dall’economista Ocse Andrea Garnero. La quota di lavoratori dipendenti con retribuzioni lorde inferiori al 60% di quella mediana – la definizione standard di povertà lavorativa – era risultata superiore al 24%: quasi uno su quattro.
Considerato che nel 2017, anno di riferimento, i dipendenti oscillavano intorno ai 17,6 milioni, si parla di 4,2 milioni di occupati. Poco più di un anno fa, presentando il precedente rapporto, Tridico aveva poi ricordato come il 23% dei lavoratori guadagnasse in quel momento “meno del Reddito di cittadinanza” e oltre 4,3 milioni non raggiungessero i 9 euro lordi all’ora.
Trucco: contare il reddito di un giorno, non dell’anno
Cosa è cambiato nel frattempo? Non risulta che gli stipendi siano quadruplicati. L’unica novità riguarda la gestione dell’istituto di previdenza e, di conseguenza, quella che nel rapporto viene definita “rappresentazione (o, più modernamente, narrazione) della situazione sociale”. I poveri, mai citati nella relazione della commissaria straordinaria Gelera, vanno ridimensionati anche nell’analisi numerica.
Per arrivare al risultato, l’Inps prende in esame i propri dati amministrativi sulle retribuzioni dei dipendenti delle imprese private, escludendo i lavoratori domestici e agricoli. Poi seleziona quelli con retribuzione sotto il 60% della mediana, cioè con un lordo giornaliero di 48,3 euro: poco più di 7 euro all’ora. Ma si concentra su un solo mese, ottobre 2022. “In questo modo non vengono considerati tutti quelli che lavorano poche settimane o pochi mesi all’anno, che sono proprio la platea a maggior rischio di povertà”, commenta Garnero.
Così, ad esempio, si perdono per strada gli stagionali che si attivano solo in estate o durante le feste di fine anno: per loro il rischio supera il 50%. “Se si vuole indagare la povertà in senso stretto bisogna guardare ai redditi annuali. Banalizzando, il piatto in tavola va messo ogni sera dell’anno e non per un solo mese”.
È attraverso questa selezione che Inps arriva a individuare solo 871.800 lavoratori poveri, “il 6,3% della platea di riferimento”: 517mila tra i full time e 354mila tra i part time, stando alla tabella di pagina 99. Segue un’ulteriore disamina mirata a dimostrare come solo una minuscola parte sia povera esclusivamente per colpa dei bassi salari e non, invece, perché ha un contratto intermittente (quindi a bassa intensità di lavoro) o di apprendistato oppure perché si trova in cassa integrazione, in malattia o fa orario ridotto per l’allattamento.
L’ultima scrematura: così si arriva allo 0,2%
Solo sul gruppo rimasto dopo aver escluso quei casi, spiega il rapporto, è stato “effettuato un controllo utilizzando la retribuzione di tutti i mesi” per depennare pure quelli che a ottobre risultavano poveri ma negli altri mesi hanno superato la soglia del 60% della mediana.
L’ulteriore scrematura fa crollare i lavoratori poveri con un contratto a tempo pieno e poveri per ragioni strettamente legate al salario a 20.300 persone, “lo 0,2% sul totale della platea dipendenti”. Insomma, “una componente marginale dell’insieme del lavoro dipendente”.
Si tratta di lavoratori, aggiunge il rapporto, “distribuiti tra un numero rilevante di Ccnl, inclusi quelli con le platee più vaste e firmati dalle organizzazioni sindacali maggiori”. Al primo posto quello delle agenzie di somministrazione con Assolavoro come controparte dei confederali, seguito dal diffusissimo contratto del terziario e servizi siglato da Confcommercio e da quello della logistica e trasporto merci.
E qui la nuova “narrazione” si incrina: ne esce scalfita la tesi di Giorgia Meloni e della ministra del Lavoro Marina Calderone secondo cui il salario minimo in Italia non serve perché la forte contrattazione collettiva tutela a sufficienza i lavoratori. Del resto, quella leggenda è già stata involontariamente smentita due mesi fa da uno studio della Fondazione dei consulenti del lavoro, emanazione dell’ordine presieduto per 18 anni dalla ministra Calderone alla cui guida ora c’è il marito Rosario De Luca: il documento voleva dimostrare l’inutilità di un minimo orario fissato per legge, ma dalle tabelle emergeva che oltre un terzo dei 61 principali Ccnl firmati da Cgil, Cisl e Uil ha minimi retributivi ben sotto i 9 euro all’ora.
Non proprio la prova di un successo.
IL LONGFORM – Abbasso la povertà
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