Le stime sul pil e sull‘occupazione ferme a quando i dati erano in crescita, per non dire che poi è iniziato il declino. Bugie sui meriti della riforma Nordio della giustizia, sulla Rai “liberata dalla lottizzazione”, sul ruolo del governo nell’arresto di Matteo Messina Denaro e nell’approvazione del tetto al prezzo del gas e perfino sui numeri del turismo estivo. Evidenti flop che si trasformano in successi, come sul contrasto all’immigrazione. Insieme a esagerazioni macchiettistiche sui “consensi bipartisan a livello mondiale” raccolti da Giorgia Meloni. Per celebrare l’anniversario della vittoria elettorale Fratelli d’Italia ha preparato la brochure “L’Italia vincente – Un anno di risultati”. Ecco un florilegio (non esaustivo) delle principali incongruenze, falsità e omissioni che saltano all’occhio scorrendo le 32 pagine. (nota: quella che segue è la versione ampliata del focus pubblicato sul Fatto Quotidiano del 23 settembre)
Le balle sul pil e occupati – Con sprezzo del pericolo, il sottotitolo della prima scheda recita: “In uno scenario di forte incertezza economica e politica a livello internazionale, i dati più recenti confermano che l’economia italiana cresce più del previsto”. Pur di confermare la tesi, il pamphlet è “congelato” a prima dell’estate. “Nel primo trimestre del 2023″, si legge, “l’Italia è cresciuta più di Germania e Francia e più della media dell’Eurozona”. Neanche una parola sul calo (-0,4%) registrato dal pil nel trimestre successivo, tra aprile e giugno. Idem per quanto riguarda l’occupazione: “Prosegue la crescita”, festeggia Fdi, senza dire che a luglio gli occupati sono diminuiti (-73mila). “I dati del tasso di disoccupazione sono i migliori degli ultimi 14 anni”. Questo è vero, nell’ambito di un mercato del lavoro che dal 2021 fino alla scorsa primavera è andato molto bene, ma in luglio il tasso ha iniziato a risalire. Capitolo commercio con l’estero: si vanta l’aumento dell’export tra gennaio e giugno sorvolando sul fatto che nel secondo trimestre è calato del 3,2%.
La riforma fiscale tutta da fare – Nella pagina dedicata al fisco si rivendica ancora il taglio del cuneo oltre alle agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato che però erano in vigore già da anni, come il credito d’imposta per gli investimenti nelle Regioni del Sud. FdI si intesta poi l’innalzamento delle pensioni minime senza dire che sono salite a 600 euro e non 1000 come promesso, per il solo 2023 e solo per gli over 75. E omettendo che è stata tagliata la perequazione degli assegni oltre i 2.100 euro lordi. I decreti attuativi della delega per la riforma fiscale ancora non ci sono per cui ci si limita agli auspici: “Al fine di ridurre la pressione fiscale si passerà da 4 a 3 aliquote Irpef”. Ma il viceministro Maurizio Leo ha chiarito che si farà “se ci saranno le condizioni”. Falsa l’affermazione che “gli imprenditori potranno accordarsi direttamente con l’Agenzia delle Entrate sul dovuto, senza più la necessità di accertamenti fiscali”: per chi aderirà al nuovo concordato preventivo biennale non vengono meno gli accertamenti. Anzi: è prevista la decadenza dal beneficio se, proprio in seguito ad accertamenti, emergono violazioni fiscali non lievi o errata documentazione di ricavi “per un importo superiore in misura significativa rispetto al dichiarato“.
Il reddito di cittadinanza – “Con il governo Meloni l’Italia riparte. Calano le richieste di sussidi e aumenta l’occupazione”, recita la scheda di pagina 6 prima di ricordare l’abolizione del rdc per gli “occupabili” e la creazione della piattaforma Siisl con le offerte di formazione e lavoro per gli ex percettori. Il calo delle domande di reddito di cittadinanza rispetto al 2021 e 2022 è però dovuto semplicemente alla ripresa post crisi da Covid, che al suo apice aveva portato 1,8 milioni di famiglie a chiedere il sostegno pubblico. E il fatto stesso che in estate – quando sono partiti i primi sms che annunciavano lo stop – il trend positivo dell’occupazione si sia invertito dimostra che il rapporto causa-effetto con il calo dei sussidi è un’invenzione.
La lotta all’inflazione – Qui di risultati non se ne cita nemmeno uno, limitandosi a ricordare che “l’esecutivo ha concentrato tutte le risorse possibili per sostenere i salari dei lavoratori con redditi più bassi e per aiutare le famiglie numerose” e “è intervenuto imponendo una tassazione sugli extraprofitti delle banche”. Il taglio del cuneo fiscale, che da luglio è stato portato al 6% per chi ha uno stipendio lordo sotto i 35mila euro e al 7% per chi sta sotto i 25mila, lascia in tasca al massimo un centinaio di euro in più al mese per la fascia di reddito più alta tra quelle beneficiate. La cifra scende a una trentina di euro per chi ne guadagna un migliaio lordi al mese. Questo a fronte di un aumento cumulato dei prezzi del 17% negli ultimi 24 mesi. Va poi ricordato che una parte dello sgravio (2% fino a 35mila euro) era in vigore già dal 2022 per decisione del governo precedente. Sugli extraprofitti i partiti di maggioranza hanno trovato solo venerdì un’intesa che accontenta Forza Italia, intenzionata ad ammorbidire il prelievo.
Dalla parte dei lavoratori? – “Con il Decreto Lavoro del 1° maggio finalmente un governo dalla parte dei lavoratori”, riassume il partito della premier, citando le “nuove agevolazioni per chi assume” e la “prevenzione del fenomeno dei giovani che non studiano e non lavorano (Neet) attraverso appositi percorsi di orientamento”. I nuovi sgravi riguardano in realtà solo i futuri beneficiari dell’assegno di inclusione, la misura che dal 2024 sostituirà il rdc per chi ha in famiglia un minorenne, un over 60 o un disabile, e i Neet, per i quali però non c’è alcun nuovo “percorso” bensì solo la vecchia e inefficace Garanzia Giovani. L’opuscolo omette che il decreto consente il rinnovo senza causali dei contratti precari nei primi 12 mesi e smantella quel che rimaneva del decreto Dignità, aprendo alla possibilità di prolungare i rapporti di lavoro a termine fino a 24 mesi per “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” decise dall’azienda.
Vincere facile – “A pochi mesi dal suo insediamento, il governo ha ottenuto l’introduzione di un tetto europeo al prezzo del gas, fermando la speculazione al rialzo e mitigando gli effetti della crisi energetica”, si legge a pagina 11. “Grazie all’Italia, è stato raggiunto l’accordo sulla “global minimum tax”. Sul blando price cap di 180 euro al megawattora, approvato lo scorso dicembre quando i prezzi erano già in discesa, l’intesa di massima era stata in realtà trovata a ottobre durante un Consiglio europeo a cui aveva partecipato l’uscente Mario Draghi, tra i principali sostenitori della misura. Ancora minore il ruolo di Meloni nel varo della tassa minima globale per le multinazionali, che era stata approvata a livello di G7 nel 2021 e ha avuto il via libera a livello Ue nel dicembre 2022 dopo che gli alleati sovranisti della premier – i governi di Ungheria e Polonia – hanno ritirato i loro veti avendo ottenuto rassicurazioni sull’erogazione dei fondi europei.
Ritardi nel Pnrr? “Bufale” – “Il governo Meloni, in un solo anno, ha conseguito tutti i traguardi del 2022, ottenendo lo sblocco della terza rata da 18,5 miliardi e ricevendo l’ok per le modifiche alla quarta”. Fratelli d’Italia sorvola platealmente sui mesi trascorsi tra gli annunci del ministro Raffaele Fitto e l‘effettivo via libera Ue alla terza rata del Pnrr, non ancora incassata, e sulla necessità di far slittare 500 milioni sulla quarta rata perché l’obiettivo sui posti letto per gli universitari non era stato raggiunto. Poi sostiene che “Giorgia Meloni e l’esecutivo hanno sempre informato i cittadini e il Parlamento” – dimenticando che la relazione sullo stato di attuazione promessa per gennaio è arrivata alle Camere solo in giugno – e parla di ritardi solo per definirli invenzioni e “bufale” della “disinformazione della sinistra”. In realtà è stata la Corte dei Conti a evidenziare forti difficoltà nella messa a terra dei fondi, prima che il governo abolisse il suo controllo concomitante sulla spesa.
La politica industriale – Per l’ex Ilva il governo “ha finalmente garantito i lavoratori, gli investitori e la continuità dell’attività produttiva di un settore strategico come quello della produzione dell’acciaio”, è la convinzione di FdI. I sindacati hanno appena scritto a Meloni e ai ministri per informarli che “Acciaierie d’Italia, a partire dal subentro della gestione ArcelorMittal, sta vivendo una fase di abbandono e pericoloso declino destinata a consegnarla a un’irreversibile condizione di spegnimento con gravissime conseguenze occupazionali oltre che industriali” perché “il management pubblico-privato aziendale non sta mantenendo nessuno degli impegni presi”. Franco Bernabè, presidente di Acciaierie, intervistato dalla Gazzetta del Mezzogiorno ha confermato: “La situazione dell’ex Ilva è grave. Lo sa la premier Meloni, lo sanno i ministri Fitto e Urso”. Quanto al comparto automotive, le trattative con Stellantis che stando alla brochure dovrebbe “tornare a produrre nei prossimi anni un milione di veicoli in Italia” sono in salita: il gruppo franco-italiano ritiene insufficiente il piano italiano di incentivi per le auto elettriche.
Turismo creativo – “Turismo da record in Italia nel 2023″, garantisce il pamphlet. “Grazie ad una visione strategica di settore e ad un adeguato pacchetto di investimenti, il Governo Meloni ha restituito centralità ad un comparto fondamentale per l’economia della nostra Nazione”. Possibile, se in agosto tutte le associazioni di categoria hanno ammesso cali? No. E infatti il “+43% di turisti provenienti dall’estero durante l’estate” vantato a pagina 27 è un falso: quello è l’aumento delle presenze di stranieri nei primi quattro mesi dell’anno. A luglio sono state meno che nello stesso mese del 2022 (30,9 milioni contro 35,7). Falso anche che tutte le città italiane abbiano “registrato un +18% rispetto al 2019 di arrivi di turisti in città e un +11% nell’area urbana”. La formulazione stessa della frase, con il riferimento all’”area urbana”, fa capire che quei dati sono frutto di un copia e incolla e riguardano una sola località. Quale? All’identikit corrisponde Milano, guidata dall’odiato – dal governo – Beppe Sala, sostenuto dal Pd. In luglio il Comune ha visto a luglio 752.695 arrivi in città (+18% sul 2019, appunto) e 1.034.638 nell’area urbana (+11%). Coraggiosa la scelta di citare come un fiore all’occhiello il Frecciarossa Roma-Pompei, che vanta la bellezza di una corsa alla settimana.
“Giustizia giusta” – Molto generico il capitolo dedicato dal pamphlet alla “giustizia giusta”: “Le misure già adottate e quelle in esame in Parlamento sono la prova tangibile dell’impegno politico verso una giustizia finalizzata a liberare le forze sane della Nazione”. In verità più che “liberare le forze sane della Nazione” alcuni provvedimenti varati dall’esecutivo avranno l’effetto di liberare i colletti bianchi dal rischio del carcere. È il caso della norma contenuta nella riforma di Carlo Nordio che impone al giudice, prima di disporre qualsiasi misura cautelare, di procedere all’interrogatorio dell’indagato, notificandogli l’invito almeno cinque giorni prima. La norma non vale in caso di pericolo di fuga, inquinamento delle prove o reiterazione dei reati più gravi (mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking) o “commessi con l’uso di armi”. In pratica la nuova norma vale quasi solo per i reati dei colletti bianchi: per arrestare un presunto corrotto o tangentista bisognerà “avvertirlo” con un anticipo di almeno cinque giorni. Nell’opuscolo celebrativo si spiega poi che “rispondere alla domanda di giustizia significa pieno rispetto delle garanzie del processo, certezza dell’esecuzione della pena e celerità nella definizione dei giudizi civili, penali e amministrativi“. Secondo molteplici commentatori, però, la riforma Nordio porterà ad allungare i tempi dei procedimenti. Critiche avanzate non solo da magistrati o dall’opposizione. La pensa in questo modo, per esempio, il professor Franco Coppi, tra i principali penalisti italiani, ex avvocato di Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi.
“È una riforma che non farà altro che allungare i tempi e complicare la vita nei piccoli tribunali, dove non ci sarà un numero adeguato di magistrati che si possano alternare per non creare situazioni di incompatibilità”, ha detto alla festa del Fatto.
Il pamphlet sostiene poi che l’obiettivo del governo è “restituire fiducia agli investitori e dare respiro alle aziende anche liberando gli amministratori dalla cosiddetta paura della firma”. Ma la questione della “paura della firma” è un concetto agitato dalla maggioranza per giustificare l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, reato che fa spesso finire sotto inchiesta sindaci e amministratori locali. Un provvedimento che tra l’altro è stato aspramente criticato dall’Europa. Cosa c’entra dunque la “paura della firma” con le “aziende” e la “fiducia degli investitori”?
“Mafia, arrestato Messina Denaro” – Giorgia Meloni ha spesso raccontato di aver deciso di entrare in politica dopo l’assassinio di Paolo Borsellino, che era uno storico elettore del Movimento sociale. Dopo un anno alla guida del Paese, dunque, il suo esecutivo si vanta di essere stato “da subito in prima linea nella lotta alla mafia“, mettendo “in sicurezza il carcere duro per i mafiosi e l’ergastolo ostativo“. In realtà il 41bis, cioè lo speciale regime carcerario per gli esponenti dei clan, non è stato messo in sicurezza per il semplice fatto che non ce ne era bisogno. Diversa la discussione per l’ergastolo ostativo, cioè il meccanismo che non fa scattare la libertà vigilata dopo 26 anni di detenzione per mafiosi e terroristi che non hanno collaborato con la magistratura. Su questa norma pesava il giudizio d’incostituzionalità della Consulta, che però aveva dato un anno di tempo al Parlamento per riscrivere la legge. C’era una riforma in discussione alla Camera, ma con la fine anticipata della legislatura la nuova disciplina non è stata approvata. È vero dunque che il governo Meloni ha messo in sicurezza l’ergastolo ostativo: gliene va dato atto. “Uno dei primi atti del Governo – si legge nell’opuscolo – è stato quello di salvare questa norma, che per una voluta inerzia delle sinistre stava per essere demolita dalla Corte Costituzionale”. In verità non era stata “l’inerzia delle sinistre”, visto che prima dell’esecutivo Meloni governava Mario Draghi, sostenuto oltre che da Pd e M5s, anche da Forza Italia e Lega, cioè due terzi dell’attuale maggioranza. Nel paragrafo in cui Fdi si vanta dei risultati conseguiti nella lotta alla mafia, tra l’altro, si scrive nero su bianco che “grazie anche alle forze dell’ordine e alla magistratura sono stati arrestati negli ultimi mesi più di mille mafiosi, tra cui il boss Matteo Messina Denaro“. Una formula che suggerisce come l’arresto dell’ultimo boss delle stragi sia avvenuto grazie anche al governo Meloni. In realtà, come è noto, nell’arresto dei latitanti il merito è da riconoscere solo ed esclusivamente alle forze dell’ordine e della magistratura.
Sostenuta la Penitenziaria: ma hanno tagliato i fondi – Secondo il pamphlet di Fdi “l’Italia oggi è più sicura”. Ovviamente “grazie al Governo Meloni“. Nel libretto autocelebrativo si sostiene che l’esecutivo ha “incrementato e rafforzato il personale delle Forze dell’Ordine e della Polizia Penitenziaria” . L’opuscolo celebra “l’aumento del numero di uomini e donne nelle Forze dell’Ordine, con le nuove 2.100 assunzioni” e sottolinea che “anche la Polizia Penitenziaria, fondamentale protagonista nelle difficili realtà carcerarie, è stata sostenuta e potenziata“. Affermazioni che però evidentemente non convincono i sindacati della Polizia come il Siap, che nei giorni scorsi ha accusato il governo di far spesso ricorso a provvedimenti che richiedono maggiore impegno alle forze dell’ordine “senza risorse adeguate e con il contratto di lavoro scaduto da due anni”. Anche sul fronte delle carceri la situazione è diversa da quella raccontata dall’opuscolo. A dirlo sono i numeri: nell’ultima legge di Bilancio è stata anticipata l’assunzione di mille agenti per i prossimi quattro anni (250 l’anno), ma mantenendo invariati organico e spese, oltre al turn over. Tradotto vuol dire che nel 2023 sono arrivate o arriveranno 1.730 unità in più, ma nello stesso periodo andranno in pensione 2.500 agenti, che non saranno completamente rimpiazzati prima del 2026. Il risultato è che ancora oggi, secondo le stime dei sindacati, alla polizia penitenziaria manca circa il 20 percento dell’organico, cioè quasi 6mila agenti. Sempre nell’ultima legge di bilancio, tra l’altro, il governo ha addirittura diminuito gli stanziamenti per l’amministrazione penitenziaria, con un taglio di almeno 35 milioni di euro nei prossimi tre anni: nove milioni e mezzo per 2023, 15 milioni e quattrocentomila euro per il 2024 e quasi 11 milioni per il 2025. Una decisione che sconfessava in pieno le dichiarazioni di Carlo Nordio, guardasigilli di Fdi, il quale ha spesso indicato le questioni carcerarie tra le sue priorità. Sullo sfondo c’è la questione delle strutture dove formare i neo assunti. “Abbiamo più agenti da formare che strutture in grado di accogliere queste importanti immissioni in ruolo che stiamo operando”, ammetteva nel marzo scorso Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia di Fdi. Anche per questo motivo all’inizio di settembre i sindacati di Polizia penitenziaria hanno scritto a Meloni, chiedendo un incontro prima del varo della nuova legge di bilancio, con l’obiettivo di “garantire agli appartenenti al comparto sicurezza le risorse necessarie per assicurare uno standard lavorativo conforme alle aspettative”. Da Palazzo Chigi, però, finora nessuno ha risposto.
“Con Fdi è tornato il merito in Rai” – L’opuscolo governativo rivendica incredibilmente di aver raggiunto dei successi anche in Rai. “Grazie a Fratelli d’Italia, l’azienda del servizio pubblico torna a puntare sul merito, sulla professionalità e sulla competenza”, si sostiene. Un’affermazione francamente surreale visto che da più parti sono state avanzate critiche nei confronti della gestione dell’azienda pubblica da parte del centrodestra proprio sul fronte del merito. Valga per tutti il ritorno di Pino Insegno, amico personale di Giorgia Meloni e speaker delle campagne elettorali di Fratelli d’Italia. Il pamphlet però va oltre e sostiene che “dopo anni di immobilismo e di occupazione militare da parte della sinistra, si sono finalmente restituiti alla Rai pluralismo, dignità, programmazione e prospettive di crescita e sviluppo. I cittadini potranno fruire di un servizio pubblico non più fazioso, in grado di garantire il confronto tra visioni e sensibilità differenti”. In realtà in viale Mazzini il centrodestra ha semplicemente replicato l’occupazione dei posti di potere compiuta in passato da altre forze politiche. Uno spoil sistem cristallizzato dalla riforma approvata dal governo di Matteo Renzi nel 2015 e mai messa in discussione dagli esecutivi successivi. Neanche da quello di Giorgia Meloni, che anzi ne ha approfittato. Dopo aver ottenuto le dimissioni di Carlo Fuortes (ricompensato con il posto di sovrintendente del Teatro San Carlo di Napoli), il centrodestra ha nominato Roberto Sergio amministratore delegato. Da quel momento, complice anche l’addio spontaneo di alcuni volti storici della Rai (da Fabio Fazio a Lucia Annunziata e Bianca Berlinguer) è cominciata “tele Meloni“, ben sintetizzata dall’arrivo di Gian Marco Chiocci alla direzione del Tg1. Il principale telegiornale della tv pubblica è ciclicamente travolto dalle polemiche per alcune delle scelte editoriali compiute: dall’intervista al generale Roberto Vannacci, alla decisione di aprire il tg con servizi che francamente non hanno un rilievo da prima notizia (come il caso del combattimento Musk-Zuckerberg) , fino all’omaggio della visita di Meloni al gp di Monza. Anche altre reti sono finite tra le polemiche per scelte controverse: Rainews ha mandato in onda gli Appunti di Giorgia, rubrica social della premier che parla ininterrottamente dei risultati del suo governo per 27 minuti senza alcuna intermediazione giornalistica.
Lotta ai trafficanti, difesa del diritto a non emigrare – Quello dell’immigrazione è il dossier sul quale il governo si è maggiormente esposto a suon di slogan, ma forse anche quello sul quale maggiori sono le promesse disattese. Almeno per ora. I blocchi navali, lo stop all’immigrazione irregolare, i rimpatri di massa promessi in questi anni sono rimasti solo nelle dichiarazioni dei leader di Lega a Fratelli d’Italia. Il Paese, sotto il governo Meloni, ha registrato una nuova impennata del numero degli sbarchi. Tra le rivendicazioni c’è quella di aver imposto “regole più stringenti per le ong straniere che operano nel Mediterraneo”. Queste sono contenute nel cosiddetto decreto Cutro, ma i mesi che hanno seguito l’imposizione del “nuovo codice di condotta per le ong” raccontano anche un’altra realtà. Nei momenti di massima pressione, sono state proprio le autorità italiane a chiedere alle navi delle organizzazioni di non rispettare alcuni dei punti del codice di condotta svolgendo, ad esempio, salvataggi multipli nel Mediterraneo. FdI arriva poi a dire che “è stata avviata un’importante azione diplomatica, con il sostegno dell’Europa, per una rinnovata cooperazione con gli Stati africani”. Il riferimento è probabilmente al cosiddetto memorandum con la Tunisia che, fino a oggi, è rimasto però solo un mero annuncio. I soldi ci sono, ma le condizioni imposte dall’Ue non accontentano, al momento, il Paese del presidente Saied. Risultato: le partenze dalla Tunisia non accennano a diminuire e quello nordafricano è diventato il primo Paese di partenza dei migranti che affrontano la rotta del Mediterraneo centrale. Alla faccia dei presunti “consensi bipartisan a livello mondiale” ottenuti da Meloni secondo FdI.
Piano Mattei per l’Africa – Matteo Salvini diceva “aiutiamoli a casa loro”, Antonio Tajani invoca da anni un “Piano Marshall per l’Africa”, ora Giorgia Meloni sostiene che il “Piano Mattei per l’Africa” debba essere la stella polare per Roma, anche per disincentivare le partenze verso l’Europa. Ma cosa intende Meloni con “Piano Mattei per l’Africa”? In sostanza, la stipula di una serie di accordi “paritari” con i Paesi africani, soprattutto in campo energetico, che permettano all’Italia di diventare uno degli hub europei del settore. Queste intese vantaggiose per entrambe le parti dovrebbero poi essere allargate ad altri temi, come appunto la migrazione, in cambio di investimenti sul territorio che permettano lo sviluppo degli Stati africani. Un’idea che dovrebbe ispirarsi all’approccio ideato, ma mai realizzato su larga scala, dal fondatore di Eni per l’instaurazione di partenariati con i Paesi ricchi di risorse energetiche: accordi su base paritaria che favorissero anche lo sviluppo degli Stati. Problema: fino a oggi non si notano grandi svolte in questo senso, se non il proseguimento del partenariato con l’Algeria (cominciato con Mario Draghi), spinto soprattutto dalla necessità di staccarsi dalla dipendenza dal gas russo più che da una reale prospettiva a lungo termine.
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