“Non voglio tornare in Ucraina. Non voglio andare in guerra. Non voglio andare a combattere”. Sedici anni e tanta paura. “Non possiamo scrivere il tuo vero nome”, gli spieghiamo, “scegline uno che ti piace”. La risposta è spiazzante: “Tape”. Perché mai scegliere per nome una parola che in inglese significa nastro. “Mi piace il suono”.
Tape è arrivato a Catania dall’Ucraina, dall’orfanotrofio in cui viveva, circa un anno e mezzo fa. È ospite di una struttura. Da quando la Cassazione ha autorizzato la nomina di una curatrice ucraina, come i suoi amici, rischia il rimpatrio. Ma il suo tutore italiano ha approfittato di un difetto di notifica (l’atto non gli è stato ancora consegnato) e giocando d’anticipo ha chiesto per lui la protezione internazionale. Tape è amico di Marco (altro nome di fantasia), il ragazzino orfano 11enne rientrato in Ucraina contro la sua volontà (la procura di Catania ha indagato la sua tutrice, Yulia Dynnichenko, con l’accusa di violenza privata e minacce). Tape l’ha visto andar via con i suoi occhi. E teme di fare la stessa fine.
Chi vuole il tuo ritorno in Ucraina?
Due giorni fa ho sentito per telefono la direttrice del mio vecchio istituto: dice che farà di tutto per riportarmi lì. Che devo tornare.
Per quale motivo?
Dice che sono sotto la sua responsabilità.
Ha chiamato lei?
No. La mia educatrice ucraina (non si tratta di Yulia Dynnichenko, ma di una sua connazionale, ndr) ha detto che voleva parlarmi, ma che dovevo telefonare io. L’ho chiamata e mi ha detto che devo tornare. Dice che verranno a prendermi.
E tu che le hai risposto?
Che non voglio tornare in guerra sotto le bombe.
Perché sei in Italia?
La direttrice ci ha portato via per allontanarci dalla guerra. Ma adesso da qui (dalla struttura che lo ospita, ndr) stanno riportando tutti indietro. Tranne me.
E ora vogliono che torni anche tu.
Sì.
Cosa ne pensi?
Che la direttrice può essere d’accordo con lo Stato ucraino. O qualcosa del genere.
Hai paura?
Sì.
Ne parli con qualcuno?
Ho tutto dentro.
Qual è la tua paura?
Adesso in Ucraina a 17 anni devi andare in guerra. Hanno abbassato l’età della leva.
Come lo sai?
L’ho letto su internet.
Quando compi 17 anni?
L’estate prossima.
Ci pensi spesso?
Non sempre. L’ultima volta è successo l’altro ieri, quando ho chiamato la direttrice. E mi è tornata la paura.
Hai i genitori?
No.
Fratelli, sorelle?
Una sorella e un fratello. Mio fratello è in guerra.
Lo senti?
No. Non risponde. Lo seguo su Facebook. Ma non so dove sia.
Tuo fratello combatte. Tu invece non vuoi. Ti fa sentire a disagio questa decisione?
Sono preoccupato per lui.
Tuo fratello, secondo te, cosa ti consiglierebbe?
Forse di restare in Italia.
Se non ci fosse più la guerra, torneresti?
No.
E perché?
Perché temo che non ci farebbero più uscire comunque. I ragazzi dovranno ricostruire l’Ucraina per 40 anni. Anche di più.
Otto mesi fa, in tribunale, hai dichiarato che eri disposto a rientrare.
Sì, perché non mi ero completamente adattato. Ma ora mi sono ambientato. Qui ora sto bene.
Studi?
Sì. Secondo anno dell’istituto alberghiero.
Hai amici a scuola?
I compagni di classe.
Tutti maschi?
No. Ci sono anche ragazze.
E in classe c’è una ragazza che ti piace?
Sì.
Gliel’hai detto?
No. Non lo sa.
È difficile dirglielo?
Sì.
Ci vuole un po’ di coraggio.
Sì.
Adesso hai chiesto la protezione internazionale. Ti contatterà il tribunale, la questura, ti senti più sicuro o hai ancora paura?
Ho paura che vengano a prendermi come hanno fatto con Marco.
Gli volevi bene.
Sì. È stata un’ingiustizia.
Perché la chiami ingiustizia?
Mi aveva detto che non voleva partire. L’hanno portato in un posto pericoloso, dove non voleva tornare.
Eri con lui il giorno che l’hanno portato via?
Sì.
L’hai salutato?
È salito in camera a prendere le sue cose. Poi l’ho accompagnato all’uscita. Insieme con gli altri.
Che ti diceva? Che non voleva tornare. Ma è dovuto andare.
E tu che gli hai detto?
Buona fortuna, Marco.
Ma tra i tuoi amici che sono partiti c’era qualcuno che voleva tornare in Ucraina?
Altri sì, Marco no.
Secondo te perché altri hanno accettato di tornare?
Hanno dichiarato che non si sentivano a loro agio nei collegi italiani. Lo dicevano davvero. Non si erano ambientati. In tre volevano davvero rientrare. Marco, no.
Li senti ogni tanto?
Sì.
Cosa ti raccontano?
Uno di loro ha inviato un messaggio audio. Ha detto che dove sta adesso si sentono le sirene. Che a volte vanno nei bunker.
Sei sicuro di quello che dici? Ce l’hai questo messaggio?
Sì (lo cerca, ma non lo trova, ndr). Comunque questo messaggio esiste. Io l’ho sentito.