Lo scorso gennaio è stata pubblicata su Nature Climate Change, del gruppo editoriale Nature (una delle riviste scientifiche più antiche – pubblicata dal 1869 – e di maggior prestigio internazionale), una interessante analisi di quattro ricercatori italiani. Partendo dallo studio dei ginepri di alta quota, noti per il loro sviluppo prostrato con un’altezza di poche decine di centimetri e resistenti al gelo e alla siccità, tramite una lunga serie di osservazioni e calcoli complessi si è arrivati a definire informazioni sulla persistenza del manto nevoso sulle Alpi relativamente agli ultimi 600 anni.
La stagione di crescita del ginepro dipende fortemente da quanto precocemente la pianta riesce ad emergere dalla copertura nevosa, registrando così nei suoi anelli di accrescimento la durata della coltre bianca soprastante. La ricostruzione finale dell’innevamento mostra ovviamente un’elevata variabilità, con anni nei quali la neve si mantiene per tutti i dodici mesi ad altri con meno di 200 giorni di copertura; tuttavia l’analisi del lungo periodo porta a considerazioni ben delineate, il declino dell’innevamento iniziato verso la fine del 1800 è evidente. I primi due decenni del duemila fanno registrare una durata media del manto nevoso di 215 giorni, ovvero 36 giorni in meno rispetto alla media degli ultimi sei secoli. Scrivono i ricercatori: “Le Alpi con il loro manto nevoso rappresentano le torri d’acqua per l’Europa e svolgono un ruolo chiave sia nei sistemi ambientali naturali che in una vasta gamma di settori socioeconomici che ruotano attorno alla disponibilità di neve invernale (…) dovrebbe sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgente necessità di sviluppare strategie di adattamento e iniziare a pensare a una riforma di alcuni dei settori socioeconomici più sensibili”.
Solo pochi giorni fa un nuovo articolo sulla stessa rivista, elaborato dalle Università di Grenobles e di Graz, calcola quanti impianti sciistici in tutta Europa saranno a rischio di chiusura per mancanza di neve, prendendo in considerazione un totale di 2.234 località. I numeri sono allarmanti, analizzando le ipotesi legate a diversi scenari. Se riusciremo a raggiungere gli obiettivi degli accordi di Parigi, mantenendo l’aumento della temperatura entro la soglia dei +1,5°C, si prospettano comunque conseguenze negative importanti per il 32% delle stazioni sciistiche europee, che con l’utilizzo dell’innevamento artificiale scenderebbero tra il 14 al 26%; in Italia, posizionata nel meridione d’Europa, avremmo il 69% di impianti in difficoltà, ridotti al 17% con l’aiuto della neve programmata grazie alla maggiore disponibilità di acqua rispetto ad altri paesi. Con un futuro a +3°C (che rappresenta la tendenza attuale) rispetto all’era pre-industriale, il 100% delle stazioni sciistiche sulle Alpi italiane avrebbe a che fare con una carenza di neve, e la percentuale si abbasserebbe al 49% con la neve artificiale; destino simile per le principali stazioni sciistiche europee con il 94% in Austria, il 93% in Francia, il 91% nei Carpazi, l’87% in Svizzera, il 70% nei Paesi nordici.
Le conclusioni dei relatori: “Per bassi livelli di riscaldamento globale, l’innevamento artificiale porta a un miglioramento delle condizioni di neve nelle stazioni sciistiche, tranne quando la situazione è già difficile al momento. Per livelli di riscaldamento più elevati, il guadagno in termini di affidabilità della neve non è sempre garantito, soprattutto al di sopra del 50% di copertura frazionata dell’innevamento, e avviene a scapito di un aumento della domanda di acqua (…) la sfida principale è quella di sviluppare e implementare percorsi di sviluppo che riducano in modo massiccio le emissioni complessive di gas serra del turismo sciistico, principalmente guidate dai trasporti e dagli alloggi, mantenendo al contempo attività sostenibili dal punto di vista ambientale che forniscano opzioni di sostentamento per un’ampia gamma di persone che vivono nelle aree montane”.
Uno studio dell’Eurac di Bolzano aggiunge ulteriori elementi. Gli impianti a quote più basse saranno i primi ad essere colpiti: ad esempio, le stazioni dell’Appennino saranno certamente le più svantaggiate per la latitudine e le minori elevazioni. Entro la fine del secolo le condizioni della neve a 2000 metri corrisponderanno a quelle che si trovano oggi tra i 1000 e i 1500 metri. E’ probabile che le precipitazioni sulle Alpi aumenteranno in inverno, ma a causa delle temperature più alte ci sarà meno neve in autunno e in primavera e la stagione sciistica sarà comunque più breve; le nevicate estreme non scompariranno poiché anch’esse sono causate dai cambiamenti climatici, aumenta non solo la temperatura dell’aria ma anche quella del mare perciò l’atmosfera assorbe più umidità, in questo modo può piovere o nevicare in modo più intenso con conseguenze di difficile previsione ma aumento di rischi associati come frane, valanghe, alluvioni, cadute di alberi e blackout. Una minore quantità di neve non significa necessariamente un minore rischio di valanghe, poiché l’aumento delle temperature potrebbe anche accelerare la destabilizzazione del manto nevoso. Lo studio conclude che le analisi costi/benefici dovrebbero seguire un approccio olistico, considerando non solo gli aspetti finanziari ma anche i fattori ecologici tra cui l’energia e l’acqua, comprendendo i benefici non economici per la popolazione rurale locale come servizi, infrastrutture, miglioramento del tessuto sociale.
La riduzione delle emissioni climalteranti appare dunque una delle condizioni indispensabili per contenere gli effetti di un cambiamento che, se da un lato appare inevitabile, dall’altro non va subìto come una sciagura ma affrontato consapevolmente adattandosi alle proiezioni del nuovo scenario che si presenta al nostro orizzonte. Le nostre abitudini dovranno cambiare, se non vogliamo lasciare ai nostri figli un futuro peggiore del nostro presente.
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