No al salario minimo legale. Per non rischiare, stop anche a quello “costituzionale” descritto in alcune recenti sentenze di Cassazione. No a una legge sulla rappresentanza. In compenso tanti nuovi compiti per il redivivo Cnel, che si candida tra l’altro a diventare fulcro di un “piano di azione nazionale” a sostegno della contrattazione collettiva e pure sede del “National productivity board per l’Italia”. Sono le principali proposte avanzate dallo stesso Cnel nell’atteso documento di sintesi sul salario minimo consegnato venerdì ai consiglieri, che stanno ora inviando i loro emendamenti in vista del voto in assemblea fissato per il 12 ottobre.
Come lasciava presagire il documento di analisi e monitoraggio diffuso due giorni fa, la bozza preparata dalla commissione informazione guidata dal giuslavorista Michele Tiraboschi raccomanda di “evitare che, fissando per via legislativa la tariffa retributiva, la questione dei salari minimi adeguati entri a pieno titolo nel vortice della comunicazione politica, in chiave di acquisizione del consenso”. E boccia senza appello un salario minimo legale nella forma prevista dalla proposta di legge delle opposizioni che tornerà in discussione alla Camera il 17 ottobre. Le motivazioni? Dall’istruttoria fatta emerge “in modo chiaro”, stando al documento, che la sua introduzione “non risolverebbe la grande questione del lavoro povero né la piaga del dumping contrattuale né darebbe maggior forza alla contrattazione collettiva”.
Poco dopo, con una notevole acrobazia linguistica, si sostiene che sarebbe inutile anche perché “la tariffa legale dei 9 euro lordi proposta in Parlamento è inferiore alle tariffe orarie minime desumibili da quasi (sic) tutti i contratti collettivi sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil se letti nella loro totale complessità”. Ovvero “non fermandosi solo alla paga base o minimo tabellare”, quella che stando alla pdl non potrebbe scendere sotto i 9 euro per garantire una soglia minima di dignità, ma tenendo conto di mensilità aggiuntive, ferie, permessi. In modo da poter aggirare il dato di fatto, mai citato, che un terzo dei 61 principali ccnl ha trattamenti minimi sotto i 9 euro.
Visto che le sentenze della Cassazione sul salario minimo costituzionale fissato dai giudici stanno impensierendo molte imprese, poi, il Cnel propone che invece di fare il salario minimo si proceda a varare una provvidenziale legge salva-paghe da fame. Cioè un intervento legislativo “volto a chiarire che, nella determinazione del trattamento retributivo di cui all’articolo 36 della Costituzione, il giudice debba fare riferimento non solo al minimo tabellare”, come stabilito dalla Suprema Corte, “ma al trattamento economico complessivo ordinario e normale spettante al lavoratore in applicazione dei contratti collettivi di maggiore diffusione”. Cioè quello che comprende pure 14esima, Tfr e welfare aziendale. Cosa che legherebbe le mani ai giudici rendendo intoccabili i contratti con i minimi più miseri, vedi quello della vigilanza privata e i tanti ccnl “pirata” firmati da sindacati non rappresentativi.
Contrattazione prima di tutto, dunque, anche se al momento con tutta evidenza non sta tutelando a sufficienza il potere d’acquisto. Unica parziale eccezione potrebbe essere fatta, ammette il testo, per “il lavoro povero”, che “riguarda prevalentemente lavoratori temporanei, parasubordinati, stagisti, lavoratori con mansioni discontinue o di semplice attesa o custodia e lavoratori a tempo parziale involontario” oltre che non meglio definite “aree di lavoro povero”. Per loro si apre all’opzione di una tariffa oraria legale in alternativa però a una cifra individuata dal contratto collettivo o accordo confederale. In ogni caso “parametrata sugli indicatori della direttiva europea” il che per il Cnel, partendo da dati medi e mediani 2019 relativi all’intera platea dei lavoratori, comporta che il minimo vada fissato intorno ai 7 euro lordi. In alternativa si propone di estendere a quei comparti il sistema retributivo dei braccianti agricoli, che prevede una maggiorazione dei minimi per compensarli della mancata maturazione di ferie, mensilità aggiuntive e festività. Lasciando il minimo invariato, si intende.
Per settori come logistica, vigilanza privata, multiservizi e turismo, quelli in cui il lavoro povero ha notoriamente enorme diffusione complice una contrattazione collettiva debolissima, le proposte sono a dir poco fumose: “Misure ad hoc di sostegno al reddito, contrasto al sommerso, gestione delle gare pubbliche al massimo ribasso”. Quanto al lavoro domestico, non si va oltre i voucher e un ennesimo bonus a copertura dei costi sostenuti dalle famiglie.
Per il resto, gran parte del documento è dedicata a quel che potrebbe fare il Cnel a guida Brunetta. Per esempio un ddl costituzionale per abrogare i commi dell’articolo 39 della Costituzione sulla registrazione dei sindacati e la cruciale e finora attuata misurazione della rappresentanza. Ma anche un (altro) lavoro istruttorio e di verifica su salari e produttività, “ulteriori approfondimenti” sulle “aree di criticità” come vigilanza e logistica, l’individuazione dei contratti collettivi più diffusi in ogni settore e relative voci retributive, il monitoraggio sulle politiche per la produttività, la preparazione dei rapporti sulla copertura della contrattazione collettiva e sul livello dei salari previsti dalla direttiva Ue del 2022. Abbastanza per scongiurare altre proposte di abolizione.