Libertà è partecipazione, diceva Gaber. Devono averlo pensato anche le 200 mila persone che il 7 ottobre hanno riempito la piazza della Cgil e delle 100 associazioni aderenti a difesa della Costituzione, riunite infine in uno spazio fisico che restituisce senso, e corpo, all’appartenenza. Può sembrare poco, ma non lo è, specie quando il Paese è avvelenato dall’aggressività di toni e modi che nutrono il potere e minano la convivenza. Ha sfidato persino il dossieraggio – e se si finisse in qualche archivio sempre disponibile a screditare? – il popolo fatto di lavoro, associazionismo, pacifismo, ecologismo, di donne, uomini e persino giovani, accalcato in piazza San Giovanni, un popolo il cui perimetro è in evoluzione, ma con ideali chiari, che adesso è pienamente in campo e in attesa di segnali reali.
Parecchie indicazioni sono arrivate dal palco – e non è solo la tragedia dei fatti tra Israele e Palestina ad averle oscurate – perché sta in quelle parole il senso di una battaglia che può modellare tanto la palingenesi del sindacato quanto quella della lotta della cittadinanza. Parole cui il governo dovrebbe fare attenzione, perché, come è risuonato nella piazza, “un’Italia fatta di staterelli”, un’Italia in cui le cure, la scuola, i servizi non sono per tutti, “è un’Italia priva di sovranità effettiva”: ed è questa la conseguenza dell’autonomia differenziata che, smantellando la Costituzione, la destra che invoca la sovranità e la declina nel sovranismo, rischia di ottenere. Quella di San Giovanni non è stata (solo) una piazza di sinistra, ma un’adunata per la res publica – come ha ribadito Gustavo Zagrebelsky – che traccia un cammino. Dopo molte critiche, va dato atto al sindacato di averlo infine capito ed esplicitato, abbracciando un percorso di trasformazione necessario.
Il Landini che ha deciso di buttare tutto il peso della Cgil a favore del salario minimo, dopo aver titubato a lungo, è un leader che dimostra di sentire e interpretare l’urgenza del tempo, riconnettendosi con la base. “Non solo i partiti, ma anche i sindacati devono cambiare”, ha ammesso, e non c’è nulla da inventarsi perché è tutto scritto in quella Costituzione (“Non solo Carta ma carne”, copyright Don Ciotti) che va difesa per poter essere attuata, tornando a occuparsi di persone, uguaglianza, diritti, lavoro. Il piano “militante”, insomma, nelle sue linee generali c’è, ma la questione adesso è trasformarlo in pratiche reali, per dar seguito alle promesse. Il primo modo deve essere portare in tutti i territori – quegli stessi territori che il progetto di legge governativo pensa di trasformare in isole disconnesse e dal destino segnato – l’apertura al civismo che ha caratterizzato la manifestazione di sabato, rendendolo un metodo di condivisione del potere. L’apertura alle istanze di genere, alla vera rigenerazione urbana in un contesto in cui anche la fisiologica solidarietà della periferia rischia di saltare, alla creazione di legami tra lavoro e cittadinanza, deve diventare realtà fattuale. Deve diventare proposizione politica con battaglie nette e obiettivi chiari, a partire dalla sanità e dall’universalismo dei servizi, per ricostruire un tessuto lacerato, su cui è stato fin troppo facile per chi governa proiettare nemici interni ed esterni, arroccamenti identitari ed escludenti.
Non è un compito facile, e l’emozione di Landini di fronte alla massa che gli ha chiesto di farsene carico lo ha dimostrato con sincerità non scontata. Ma è un compito ineludibile se si vuole dar seguito alle intenzioni, se si vuole davvero che lo sciopero generale e ogni altra azione necessaria a scongiurare lo scellerato piano del governo possano portare risultati. L’alternativa è ricacciare la partecipazione nell’angolo dei personalismi: ma non è questo quello che si intende con libertà.